L’ABBAZIA DI MONTESCAGLIOSO di Andrea Romanazzi
Alla ricerca dell’elixir della longevità:
diario di viaggio tra l’abbazia di Montescaglioso e il duomo di Spoleto
Durante uno dei miei ultimi viaggi mi sono imbattuto in quelle che Fulcanelli avrebbe definito due “dimore filosofali”. Esse sono piuttosto lontane tra loro, trovandosi una in Lucania, e precisamente nella Abbazia di San Michele a Montescaglioso, e l’altra all’interno del Duomo di Spoleto. Sembrerebbe molto strano come due luoghi così fortemente “magici” ed “esoterici” si trovino presenti in siti dediti al culto cristiano, in realtà il tema dell’Alchimia, a differenza della Magia, non è stato estraneo all’attenzione da parte dei Papi e dei Cardinali della Curia Romana alla ricerca alchemica dell’Elixir: l’Immortalità.
Una testimonianza dell’interesse per questa nuova scienza tra gli alti ambienti clericali la troviamo in diversi documenti di Ruggero Bacone inviati al papa Clemente IV, ove appunto si parlava dell’arte di “khem” e dell’elixir di longevità, ma essa non è estranea a numerosi trattati di studiosi e alchimisti che si avvicinarono a questa disciplina sempre all’interno delle mura Vaticane. Pensiamo ad Arnaldo da Villanova, medico di Bonifacio VIII, o comunque ai Francescani, che si avvicinarono al pensiero baconiano dando luogo agli esiti da un lato farmacologici, dall’altro visionari e allegorici, della ricerca alchemica.
La ricerca dell’elixir di lunga vita non era per nulla osteggiata dal pensiero cristiano, anzi, ad esempio la condanna portata da Giovanni XXII agli alchimisti nel decretale Spondent quas non exhibent non riguardava la ricerca dell’elixir, ma solo il problema della falsificazione dell’oro. Ecco perché Giovanni da Rupescissa poté scrivere il suo De consideratione quintae essentiae nel carcere papale di Avignone senza che questo aggravasse la sua posizione.
Ecco che però le tracce si fanno consistenti, diventano muri e affreschi di due curiosi quanto enigmatici luoghi. Come accennato in precedenza, il primo si trova in una sala del primo piano, un tempo biblioteca e dunque luogo di “sapienza”, del monastero di San Michele nel paese lucano di Montescaglioso.
Nell’immagine a lato,
la Vergine che allatta nel Monastero di San Michele
Il monastero era fortemente legato alle attività di Montecassino come si può facilmente notare dallo stemma rappresentante i “tre colli” presente in una delle sale al piano terra.
Appena si entra nella stanza possiamo notare figure di grandi pensatori, tra cui il Pitagora nell’atto dell’insegnamento di nozioni matematiche e filosofiche che ben si sposano con questa camera “filosofale”. Tutto è decorato da figure di elfi danzanti o che suonano strani strumenti, serpenti, animali e inusuali uccelli. Spesso è presente la figura di Re Mida con le sue orecchie d’asino, ad indicare nella simbologia ermetica “una verità che non può essere svelata”. Diversi sarebbero gli affreschi e le pitture sui quali soffermarci, noi ne esamineremo solo alcuni.
Proprio sulla porta d’ingresso troviamo la “vergine che allatta”, la “virgo et mater”, trasposizione cristiana di Iside ed il figlio Horo, insomma una classica vergine nera, facilmente distinguibile dalla posizione del Santo Bambino.
Immediatamente vicino ecco l’affresco del “toro”, l’animale totemico della dea e, dal punto di vista dell’opera alchemica, sacro al Sole e rappresentazione dello Zolfo, il principio maschile, contrapposto al Mercurio, l’elemento femminile che si ritrova quasi di fronte nell’affresco rappresentante appunto San Michele, per molti trasposizione cristiana di Hermes o Mercurio!
Altro simbolo fondamentale dell’Opera è il “corvo nero” (vedi figura sotto a sinistra): esso rappresenterebbe la cottura e il color nero sarebbe il primo segno della decomposizione, conseguenza della perfetta miscela delle materie e quindi fortemente anelata dall’ alchimista.
Tale uccello (e quindi la decomposizione) deve apparire più volte nella realizzazione dell’Opera, per alcuni anche 4: infatti è attraverso questa decomposizione della materia che si separerebbe il puro dall’impuro, il segno di una buona putrefazione avvenuta sarebbe proprio, come dice Batsdorff:
“una nerezza assai nera et molto profonda, un odore fetido chiamato dai filosofi toxicum et venenum”.
Ma i messaggi alchemici non terminano qui. Così, continuando a vagare per le pitture, l’attenzione si sofferma su una strana raffigurazione. E’ “la zampa del leone” che regge il vaso alchemico, espressione del segno dell’oro, il fuoco segreto. Del resto, il primo agente che serve a preparare il mistico solvente viene chiamato “leone verde”: esso è lo stato embrionale che però possiede in sé l’energia reale, è l’imperfezione da cui poi deriverà il nostro elixir. E’ la Cabala che ci indica così la via, è nella lettera il segreto dell’Opera, così ecco che appare una “S”, o meglio una Triplice “S”, lo Zolfo filosofale (vedi figura sotto a destra). Ma essa non è presente nella sua “unità” ella è Trina nell’Affresco, l’indicazione è che si deve ripetere per ben tre volte la calcinazione del corpo per realizzare le tre opere filosofiche come secondo le teorie di Geber.
La prima operazione ci da appunto lo zolfo filosofale, la seconda l’elixir, mentre la terza la Pietra filosofale, medicina che incorpora in sé tutte le qualità e virtù.
Moltissime altre sarebbero le cose da dire, ma lasciamo a chi più esperto di noi il compito di identificare e rintracciare i vari “passi” dell’Opera. Così, ci spostiamo a Spoleto, e in particolare nello splendido Duomo della cittadina. Qui, appena si entra, immediatamente sulla destra, troviamo una cappella privata spesso visitata causa la presenza di un affresco del Pinturicchio. Ma ecco che all’occhio del curioso un’altra camera si presenta agli occhi e silenziosa ad essi parla.
Si ha subito l’impressione di entrare in una “stanza filosofale”, molte delle decorazioni sono simili a quelle ritrovate a Montescaglioso, così ritroviamo elfi che danzano e suonano, lanterne e strane creature. In alto si può notare il “satiro che insegna”, elemento fortemente pagano e che non avremmo pensato di ritrovare in un ambiente cristiano. Anche qui, poi, sarebbe presente l’Arcangelo Michele con la bilancia e la spada, classici attributi di Thot , il dio egizio da cui proverrebbero gli insegnamenti alchemici, l’arte della terra di Khem. Vicino all’affresco dell’Arcangelo si può scorgere l’”ariete bianco”, importante simbolo alchemico:
”Gli adepti dichiarano d’estrarre il loro acciaio dal Ventre dell’Ariete e chiamano calamita anche questo acciaio”.
Ma forse la più chiara ed esplicita indicazione della ricerca alchemica tenuta in quei luoghi è data proprio dall’affresco centrale. Al centro è rappresentato il Cristo e sul lato sinistro San Paolo con la SPADA e su quello destro San Pietro con la CHIAVE. Sembrerebbe la classica iconografia ma ecco che all’osservatore attento l’affresco sembra suggerire altro. Ecco così che appare come la spada e la chiave fossero messe in notevole risalto, messe in primo piano rispetto ai santi.
E’ l’analoga rappresentazione che troviamo in Le Livre Des figures Hieroglyphiques di Nicolas Flamel. Ebbene, in entrambi i disegni, sia a Spoleto che appunto nell’opera dell’alchimista, una strana prerogativa è la posizione dei santi: in entrambi San Paolo si trova a Destra, ove di solito si trova san Pietro oltre all’oggetto posto in evidenza.
Strani simboli e strane dimore, che meriterebbero una visita più accurata, sicuramente testimonianza di una profonda simbologia alchemica che regnava, in quei tempi, proprio all’interno degli ambienti cristiani della curia papale, ove Papi e Cardinali cercavano più le ricchezze terrene che le Glorie del Paradisiaco Regno dei Cieli.
Apertura: APRILE-OTTOBRE 9.30-1300, 15.30-19.00.
NOVEMBRE-MARZO 10.00-13.00, 15.00-17.00.
www.cea.montescaglioso.net
Autore: Andrea Romanazzi
Messo on line in data: Marzo 2006
Apparato iconografico a cura dell’Autore.