I FEDELI D’AMORE di Redazione
Speciale Società Segrete e Iniziatiche: i Fedeli d’Amore
Attorno alla parola “amore”, intesa in un senso molto più spirituale e meno comune di quello odierno, si sviluppò una delle società a carattere iniziatico che ha contraddistinto il Medioevo a partire dal XIII secolo. Concetto cardine di quest’antico ordine era la ricerca della Verità avviata in seguito ad un’illuminazione del tutto personale e protesa verso il divino. Di conseguenza, essi andavano alla ricerca di una “via segreta o occulta (meglio, occultata)” comprensibile esclusivamente dai soli iniziati, che conducesse a tale sapienza senza mai “volgarizzarla”, nel senso di svelarla alla massa. La necessità di tramandare un sapere di questo tipo – cioè, esoterico ed iniziatico – ad un consesso scelto di persone non deve sorprendere, né dev’essere frainteso come forma di discriminazione.
Le fondamenta dell’intero apparato esoterico poggiano, infatti, su un presupposto di base secondo cui esiste una distinzione tra il volgo – inteso come la moltitudine di coloro che ignorano o non desiderano accedere al senso di determinate cose – e i saggi, gli iniziati e gli adepti.
A tal riguardo, Jean Marques-Riviere, nel suo Storia delle dottrine esoteriche, riporta alcune parole che apparterrebbero ad Ermete Trimegisto – personaggio mitico a cui si farebbero risalire alcuni trattati di alchimia e scienze occulte, quali il Corpus Hermeticum e la Tabula Smaragdina detta anche Tavola di Smeraldo:
“… evita di intrattenervi alla folla; non perché io voglia impedire che ne venga a conoscenza, ma perché non voglio esporti alle sue derisioni […] Queste lezioni devono essere udite da pochi, o presto non ve ne saranno più del tutto. Esse posseggono qualcosa di così particolare che spinge i malvagi ancor più verso il male. Guardati dalla moltitudine, perché questa non comprende la virtù di tali discorsi.”
Nel caso dei Fedeli d’Amore, l’iniziazione era legata fortemente ad un’illuminazione interiore ed individuale che veniva antropomorfizzata sotto forma di amore per una donna (o dama), che acquisiva una valenza doppia: da un lato, ella era oggetto dell’amore del Fedele in quanto essere umano e, dall’altro, trasposizione simbolica di quell’anelito d’amore che conduce ad una ricongiunzione col divino. In questo senso, la confraternita dei Fedeli d’Amore è spesso fatta derivare da o accostata al sufismo, deviazione esoterica della religione islamica secondo la quale il traguardo dell’esistenza umana consiste nell’andare incontro alla Verità, attraversando i sentieri lastricati di Amore Puro e devozione assoluta. L’allegorizzazione della donna e dell’amore terreni come contenitori di simbolismo divino risaliva, anche, al sufismo. Molte poesie sufiche, infatti, gettano luce sull’idea di una purificazione del cuore da tutte le scorie derivanti dall’esperienza dell’immanente, al fine di sciogliersi e fondersi col trascendente. Recita, infatti, una poesia sufica:
Ho pensato a Te così spesso
che sono diventato Te.
A poco a poco Tu sei avvicinato
e a poco a poco io sono scomparso.
Il Fedele d’Amore, iniziato a questo tipo di Verità scevra dai vincoli terreni, s’incamminava così in quello che Dante definiva “il lungo cammin di nostra vita”, guidato da una sensazione, l’intuizione di qualcosa che percepiva come più grande di lui, da cui egli stesso discendeva e a cui anelava con passione ed ardore. È da ben intendersi che i termini passione ed ardore erano, in questo caso, utilizzati nel loro significato originario e depurati, quindi, dai valori aggiunti associativi nel corso dei secoli: passione – dal latino patire – identificava una forte commozione dell’animo, talvolta seguita dal dolore e dal travaglio (momenti, d’altronde, obbligati nell’ambito di un percorso iniziatico); ardore – dal latino ardere – rappresentava l’atto dell’essere arso, consumato dal fuoco dell’amore.
La donna era veicolo e, al tempo stesso, fulcro di questo movimento di ascesa verso l’alto; decantata per la sua bellezza infinita e per le forme perfette, ella simboleggiava la Sapienza eccelsa tramandata e purificata da Cristo ma occultata da un velo che impedisse, a chi non ne era degno, di goderne. Il culto della donna e del suo corpo come archetipi di bellezza suprema ricorre anche in un movimento letterario – definito da Dante Dolce Stil novo nel XXIV canto del Purgatorio – che vide la luce tra la fine del Duecento e gli albori del Trecento e che confluì in una scuola poetica iniziata da Guido Guinizzelli. Vi presero parte artisti del calibro di Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia , Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi. Secondo alcuni studiosi – come Luigi Valli nel suo Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, René Guénon con L’esoterismo di Dante e molti altri –, gli stilnovisti aderirono alla tradizione iniziatica dei Fedeli d’Amore, facendo della loro scrittura un mezzo di comunicazione, ammantato di mistero e denso simbolismo, attraverso cui tramandare non una conoscenza astratta e chimerica, bensì una descrizione, un racconto, di quel viaggio esoterico (dal greco esoterikos: interno) che conduce, in tutte le scuole di pensiero iniziatico, alla Trascendenza, cioè a Dio. E poco importava se l’illuminazione, che costituiva la scintilla iniziale di siffatto movimento mistico (come si legge nel Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, questo termine deriva dal latino mysticus, arcano, e dal greco myein, nascondere, tacere; identifica qualcosa che ha “carattere di spiritualità allegorica”), portasse ad un insegnamento impartito nell’ambito di una congrega circoscritta a pochi “eletti” o del circuito chiuso del proprio cuore.
La scrittura, così intima e profonda, degli stilnovisti si protendeva nella ricerca delle origini e della natura del sentimento d’amore che travolge tutti i sensi, li mescola in un turbine di emozioni e li assimila nella coscienza. In questa ricerca di senso, che coinvolge tutte le facoltà percettive dell’individuo, lo stilnovista ricalcava il sentiero lastricato di gioia e dolore che conduce a Dio. La bellezza femminea rispecchiava, ai suoi occhi, la bellezza di Dio ma, al contempo, rimandava un’immagine doppia. Da un lato lo splendore e l’incanto delle sue forme erano involucro di sembianze angeliche (“Tenne d’angel le sembianze/ che fosse del tuo regno;/ non me fu fallo, s’in lei posi amanza”, da G. Guinizzelli, Al Cor Gentil Reimpaira Sempre Amore, vv 57-60) e riesumavano lo spirito verso dimensioni paradisiache in cui la donna appariva come una cosa venuta “da ciel in terra a miracol mostrare“. Dall’altro, il corpo della donna ispirava passioni profondamente terrene e sconvolgenti, in grado di far precipitare l’animo del poeta verso gli Inferi, in un volo a planare verso l’Ade, dove dolore e tormento regnavano sovrani.
Il magma di questi sentimenti angelici e di impulsi effimeri sembrava, così, richiamare la materia prima del procedimento alchemico spagirico, finalizzata ad essere manipolata, purificata e poi trasformata, attraverso la quintessenza (in questo caso l’illuminazione), in “pietra filosofale” (essere puro, pronto a ricongiungersi al divino). La filosofia stilnovista dovette risentire anche dell’influsso di tanta parte di filosofia che si andava diffondendo attraverso libercoli ed opere varie e veniva discussa nelle diverse scuole religiose, e non, dell’epoca. Uno dei pensatori più apprezzati fu, infatti, S. Bonaventura con la sua “metafisica della luce”. Dante ne discusse ampiamente i principi, in seguito alla morte di Beatrice (1290), quando prese parte ai dibattiti sollevati dagli ordini monastici Francescani e Domenicani. Vale, a tal riguardo, la pena di ricordare la dottrina invocata dal santo, secondo la quale l’essere è dotato di un aspetto corporeo – la materia – e di uno incorporeo – lo spirito. La materia va attribuita tanto agli esseri corporei, quanto a quelli spirituali; è l’evoluzione di materia in forma che differenzia le due dimensioni. La luce, prima manifestazione del trascendente, si proietta così non solo attraverso le Intelligenze superiori (gli angeli) ma anche attraverso gli esseri umani eletti a sollecitare, nei propri simili, l’anelito alla conoscenza di Dio.
Dante, Cavalcanti, Gunizzelli e gli altri stilnovisti avrebbero cercato, così, attraverso l’esperienza d’incontro carnale e visivo con la donna, la propria strada – personalissima ed individuale – verso l’essenza delle cose, oltre il sipario della materia. Ciò che li accomunava, quindi, non era tanto il percorso intrapreso, che si dipanava in modo differente a seconda delle tappe realizzate e delle emozioni provate, né l’intuizione propulsiva alla “luce”, quanto le modalità attraverso cui perseguire l’ispirazione della propria coscienza. Un simbolismo per l’appunto “esoterico” – sempre nel senso di “interno” – finì così col sottendere, secondo i critici sopra citati, un modus scrivendi condiviso, veicolo di una tradizione millenaria da tramandare in un linguaggio cifrato. Convergendo con l’idea secondo cui l’intera Natura sarebbe ammantata da un codice che, lì dove svelato, condurrebbe a Dio o, quanto meno, aprirebbe nuovi varchi alla Sua conoscenza (si legga, a tal riguardo, nel Theologicorum di T. Campanella: “La natura è il libro dei libri, il codice primo, superiore a tutti gli altri, compresa la Bibbia, che Dio ci ha concesso perché avevamo bisogno di un codice piú facile.”) e richiamando il concetto di archetipo, Luigi Valli, nel suo libro, si propone di decifrare le allegorie nascoste nel linguaggio degli stilnovisti e di recuperarne il legame coi dettami insiti alla filosofia dei Fedeli d’Amore. L’amore stesso diventa, così, amore per la sapienza suprema; la donna diventa l’iniziata, il Fedele d’Amore; la Madonna è la Sapienza stessa; l’atto del piangere diventa simulazione di appartenenza alla Chiesa ufficiale, ecc…
In questo contesto la Divina Commedia di Dante, analizzata in ogni minimo dettaglio dalle più disparate scuole di pensiero, si trasformerebbe nel racconto di un cammino iniziatico che comincia nelle viscere della terra (allegoria del VITRIOL alchemico: Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem, visita le viscere della terra e, seguendo la retta via, correggendoti, troverai la pietra occulta) – dove l’animo umano si trova al livello più basso dello stadio evolutivo e le passioni, i sentimenti e i difetti di mescono in un massa informe e caotica –, passa attraverso la purificazione dalle scorie – che preannuncia la liberazione finale – e conduce alla dimensione empirea, imbevuta di luce, dove l’anima può riconciliarsi con la sua fonte: Dio.
Autore: Redazione
Messo on line in data: Maggio 2006