FRANCOIS VILLON di Pinuccia Cardullo e Devon Scott
François de Moncorbier nacque a Parigi nell’aprile del 1431 da famiglia povera.
La madre, vedova, lo affidò al dotto e ricco Guillame de Villon, canonico della chiesa di Saint Benoit, che alcuni suppongono fosse il suo padre naturale e in onore del quale egli assunse poi il cognome Villon, anche se in alcuni documenti veniva citato come “des Loges”.
Il canonico fu per lui, comunque, come un padre e lo iniziò agli studi.
Nato sotto l’occupazione inglese (il 30 maggio del 1431 fu bruciata come strega Giovanna D’arco), mentre ancora infuriava la guerra dei Cento Anni, il giovane François trascorse il periodo degli studi in una Parigi irrequieta, in un ambiente studentesco burlesco e goliardico, che voleva dimenticare un passato così terribile e difficile.
Si lasciò coinvolgere allegramente in questo clima, frequentò ambienti equivoci, si diede ai piaceri più sfrenati e rimase coinvolto in decine di risse e nei disordini che spesso si verificavano nella comunità studentesca della Montagna di Sainte Geneviève.
Nel 1449 divenne baccelliere presso la facoltà delle Arti di Parigi, nel 1452 maestro in arti. Nel 1455 dovette lasciare Parigi dopo aver ferito a morte un prete per questioni di donne. Tornò l’anno seguente, graziato da re Carlo VIII; ma prima di Natale partecipò ad un clamoroso furto alla facoltà di teologia del collegio di Navarra.
Il 31 di dicembre fu nuovamente costretto a fuggire.
Proprio in quel periodo scrisse il Lais o Petit Testament, in cui si ritrova l’eco delle sue disavventure, delle sue frequentazioni di emarginati e ladri e delle sue avventure amorose. Passò quattro anni peregrinando per la Francia, vivendo di espedienti; per un certo periodo fece parte di una banda di delinquenti, i Coquillards, noti per la loro ferocia.
Nel 1461 fu incarcerato e condannato a morte a Meung-sur-Loire, ma ancora una volta venne graziato.
Scrisse la sua opera più famosa, il Testament, detto anche Gran Testamento, nel primo trimestre del 1462. Alla fine dello stesso anno, rimesso in prigione per il vecchio furto al collegio di Navarra, fu scarcerato dietro promessa di restituire centoventi scudi d’oro.
Coinvolto in un’altra, ennesima, rissa con un ferito grave, dati i suoi precedenti fu condannato a essere impiccato; egli scrisse allora il suo Epitaphe, meglio conosciuto come La ballata degli impiccati.
La sentenza di morte fu convertita in dieci anni di esilio. E da allora di François Villon si perse ogni traccia: semplicemente, sparì.
La prima edizione delle sue opere è del 1489.
Questo per la storia.
Ma chi era François Villon, in realtà?
Considerato il primo “poeta maledetto” della storia della letteratura, egli scrisse in un gergo proprio degli uomini di malaffare, quello stesso jargon misterioso e affascinante che divenne in seguito famoso nei pittoreschi racconti della Corte dei Miracoli. Ne sono un esempio le ballate argotiques, comprensibili solo agli iniziati.
Una lettura superficiale trova nei testi di Villon solo malinconiche meditazioni sulla vita, sulla morte che tutto riduce a cenere, che tutti gli uomini rende ugualmente soli, disperati e continuamente sulla linea di confine tra bene e male, tutti ugualmente puniti con la morte: quello che ci si può aspettare da un uomo vissuto in ambienti poveri, sordidi, tra emarginati, delinquenti ed alcolizzati.
Un’analisi approfondita, invece, potrebbe scoprire che ogni parola delle sue opere rivela una cultura straordinaria, ben superiore a quella di uno studente scapestrato, diplomato per “il rotto della cuffia”. E vedrebbe analogie con testi ermetici, alchemici, magici o decisamente eretici, che hanno fatto accostare il Personaggio Villon ai Catari, alla Confraternita dei Fedeli d’Amore e ai Rosacroce. Un’ipotesi interessante è che Villon fosse un nome fittizio, assunto da un personaggio molto importante per mandare un messaggio ermetico, difficile da decifrare per chi non fosse a conoscenza della Cabala, dell’Alchimia e del simbolismo dei Tarocchi.
Concludiamo con il testo della celeberrima Ballata degli impiccati, che alcuni critici hanno definito una delle più belle poesie mai scritte.
La versione metrica è di Vittorio Pagano ed è tratta da Francese Antico, Quaderni del Critone, 1958.
La ballata degli impiccati
Fratelli ancora vivi, o umana gente,
non siate contro noi duri e spietati!
Più presto troverete Iddio clemente,
pietà portando a questi disgraziati…
Cinque, sei, ci vedete qui impiccati:
già in polvere si va, stecchito ossame,
ché i corpi, cui saziammo cento brame,
da un pezzo sono putridi e distrutti…
Non irridete questa sorte infame,
ma Dio pregate – che ci assolva tutti!
E non vi sdegni il nome di fratelli,
anche se noi morimmo giustiziati:
spesso difetta il senno nei cervelli,
voi lo sapete, e avvengono i peccati…
poiché la morte adesso ci ha ghiacciati,
fate che Cristo scusi i nostri torti,
che avaro non ci sia dei suoi conforti
e nel fuoco infernale non ci butti!
Nessuno ci molesti: siamo morti.
Ma Dio pregate – che ci assolva tutti!
Ci lisciò la pioggia e ci ha lavati,
e neri e secchi diventammo al sole:
le gazze e i corvi gli occhi hanno strappati
e barbe e ciglia… Macabre carriole,
il vento ci sballotta come vuole,
di qua, di là, mai fermi – e le beccate
in ditali le salme hanno mutate…
e sempre avanti e indietro, come i flutti…
Di questa compagnia, dunque, non siate,
ma Dio pregate – che ci assolva tutti!
Principe da cui siamo governati,
Satana non ci tenga incatenati:
più nulla noi facciamo che gli frutti…
uomini, basta con gli scherni usati,
ma Dio pregate – che ci assolva tutti!
Autore: Pinuccia Cardullo e Devon Scott
Messo on line in data: Gennaio 2001