MANDYLION E SINDONE di Lawrence Sudbury

Due reliquie, una stessa storia?

La Sindone di Torino non ha bisogno di presentazioni: probabilmente ben pochi non ne hanno sentito almeno parlare e, comunque la si pensi, che la si ritenga il sudario del Cristo o un’abile contraffazione, resta, di fatto, una delle reliquie più venerate della storia della cristianità. Forse il suo aspetto che, da sempre, ha più colpito la fantasia popolare è la sua vera o presunta “acheropitia”, cioè il fatto che, a tutt’oggi, non risulti in nessun modo dipinta “da mano d’uomo”.
Ciò che non molti sanno è che, nella storia del cristianesimo, la Sindone non è stata la sola immagine acheropita di Gesù e, con ogni probabilità, neppure la prima (almeno, per quanti, nonostante le prove C14, continuano a ritenere la Sindone un oggetto sacro originale, non la prima ad essere venerata).

Le cronache cristiane, dal II secolo in poi, infatti, fanno spesso menzione di un’altra immagine acheropita, venerata a Edessa prima e a Costantinopoli poi, e irrimediabilmente perduta (nonostante le pretese di alcune città, quali Oviedo e Genova, di essere in possesso della reliquia) durante il devastante sacco della capitale dell’impero bizantino nella Quarta Crociata (1204).
Dal IV secolo in poi, questa sacra immagine era conosciuta in tutto il medioriente con in nome di Mandylion (dalla storpiatura greca del termina arabo “mandil”, lenzuolo, telo) e ispirò la creazione della festa del “Volto Santo” (tuttora celebrata anche dai cattolici il 16 agosto). Forse proprio perché il Mandylion è perduto da più di 800 anni, la sua vicenda è poco conosciuta e necessita di essere brevemente ricordata.

Secondo la leggenda (tratta da un Sinassario bizantino, risalente circa all’anno 1000 [1] e probabilmente sorto dalla fusione di racconti precedenti, provenienti da manoscritti siriani del IV secolo e sincretizzati con il racconto narrato nell’apocrifo Dottrina di Addai, anch’esso del IV secolo), l’origine di questa icona è legata alla storia di Abgar V Ukhama, principe di Osroene, piccolo stato fra il Tigri e l’Eufrate, la cui capitale era Edessa.
Il re Abgar, lebbroso, inviò presso Cristo il suo archivista Hannan con una lettera, nella quale supplicava Cristo di venire a Edessa e di guarirlo. Hannan era pittore e, nel caso che Cristo avesse rifiutato di venire, Abgar gli raccomandò di fare il ritratto del Signore e di portarglielo. Hannan trovò Cristo attorniato da una grande folla; allora salì su un masso, da dove poteva vederlo meglio. Tentò di farne il ritratto, ma non vi riuscì “a causa della gloria indicibile del suo Volto”.

Vedendo che Hannan tentava inutilmente di raffigurarlo, Cristo chiese dell’acqua, si lavò, si asciugò il viso con un panno e su quel panno rimasero impressi i suoi lineamenti. Consegnò il panno ad Hannan affinché lo portasse al re Abgar, e gli promise che, una volta terminata la sua missione, gli avrebbe inviato uno dei suoi discepoli. Quand’ebbe ricevuto il ritratto, Abgar guarì quasi completamente dalla sua malattia, ma gliene rimasero alcuni focolai sul viso.
Dopo la Pentecoste, l’Apostolo San Taddeo, uno dei 70, venne a Edessa, completò la guarigione del re e lo convertì. Abgar fece subito rimuovere un idolo che si trovava sopra una delle porte della città, e vi pose la Santa Immagine. Ma suo nipote ritornò al paganesimo e volle distruggerla. Il vescovo della città la fece allora murare, dopo avervi posto dinanzi, all’interno della nicchia, una lampada accesa e, col tempo, il nascondiglio fu dimenticato.

Fu riscoperto nel periodo in cui il re dei Persiani, Chosroes, assediava la città (544 o 545) e, portato in processione, disperse le truppe persiane. Gli imperatori bizantini Costantino Porfirogenito e Romano I acquistarono dai saraceni (che nel frattempo si erano impadroniti della città) l’icona nel 944, e la fecero trasportare solennemente a Costantinopoli. Con il sacco di Costantinopoli (1204) le tracce dell’icona si perdono.
Storicamente, le piste del Mandylion sono, in realtà, molto più labili: fino al IV secolo nessuno fa menzione della reliquia e, anche dal punto di vista cronologico, in effetti le cose non quadrano perfettamente, dal momento che la conversione di Edessa risale alla fine del II secolo (e non alla prima metà del I) ed è legata sì ad un re Abgar, ma Abgar IX e non Abgar V…

Di fatto, comunque, soprattutto a partire dal X secolo, finito l’iconoclasmo e ristabilita nel Concilio dell’843 la legittimità della devozione per le immagini, la venerazione per questo panno di circa un metro per mezzo metro (a detta degli scritti che lo menzionano), ripiegato quattro volte (“Rakos tetradiplon” viene definito da Evagrio [2] nel IV secolo) e recante la presunta effige del Salvatore, fu enorme e, per rendersene conto, basta leggere alcune pagine del già menzionato Sinassario bizantino:

Si formò un corteo nel quale avevano preso posto i vescovi di Samosata e di Edessa nonché altra pia gente. Strada facendo si operarono prodigi. Arrivato il corteo al rione degli Optimati nella chiesa della Theotòkos detta ‘di Eusebio’ , fu acclamato da grandi folle e molti ammalati furono guariti. Anche un indemoniato si mise a gridare: «Ricevi, o Costantinopoli, gloria, onore e letizia; e tu, o Porfirogenito, il tuo impero». Detto questo l’uomo fu subito guarito. Il 15 agosto dell’anno della creazione 6452 (che corrisponde all’anno 944) il corteo arrivò al santuario della Theotòkos di Blacherne, ove la reliquia venne esposta ai fedeli e venerata dalla famiglia imperiale, che si trovava già nel santuario di Blacherne per festeggiare l’Assunta, dalla nobiltà e da tutto il popolo. L’indomani, 16 agosto, dopo l’ultimo saluto la sacra immagine fu portata a spalle in una grande processione, guidata dal patriarca Teofilatto, dai giovani Imperatori, essendo il padre trattenuto a letto da grave malattia, e accompagnata da tutto il senato e dal clero. Al canto di inni e in mezzo a miriadi di lampade e di luci, il corteo, entrato attraverso la Porta d’oro, percorse tutta la città e arrivò alla grande chiesa di Santa Sofia. La preziosa reliquia fu portata nel santuario ed esposta alla venerazione pubblica. Quindi la processione riprese, passò attraverso il palazzo imperiale e arrivò alla chiesa della Theotòkos detta ‘del Faro’, dove fu deposta la venerata e santa Immagine del Signore Dio e Salvatore Nostro Gesù Cristo, per la gloria dei fedeli, la salvaguardia della famiglia imperiale, la protezione di tutta la Città e la stabilità dei cristiani.

Poi, come detto, nel 1204 la scomparsa, certamente dovuta al saccheggio crociato di Bisanzio e l’oblio… Una nuova immagine acheropita, la sindone, prenderà il posto del Mandylion nello stupore e nel culto dei fedeli, mentre il Mandylion verrà progressivamente dimenticato, ricordato soltanto da una festività del calendario liturgico, quella già ricordata del “Volto Santo”, misteriosa per la maggior parte dei cristiani.

Dal 1978, però, negli ambienti legati allo studio delle antichità religiose, il Mandylion ricompare, riportato agli onori della cronaca da un docente di storia del Magdalen College dell’Università di Oxford, Ian Wilson, che, al II Congresso Internazionale di Sindonologia di Torino e successivamente nel best-seller The Shroud of Turin [3], sostenne l’identità tra Mandylion e Sindone: insomma, “Mandylion” altro non sarebbe che il nome attribuito alla Sindone (che, ricordiamo, compare in alcune cronache solo dal 1147, quando Ludovico VII, Re di Francia, in visita a Costantinopoli, viene descritto in venerazione del Santo Sudario, e che viene esposta ai fedeli solo nella seconda metà del XIV secolo) prima della sua caduta in mani occidentali.

Cosa ha indotto questo prolifico autore di testi scientifico-religiosi (ne ha scritti oltre venti) a ipotizzare una tale identità? Sostanzialmente, sia l’omogeneità delle reliquie, entrambe venerate come immagini acheropite del Cristo, sia la relativa continuità tra le loro apparizioni: praticamente, quando il Mandylion scompare, compare la Sindone, con un “breve buco storico” di soli 150 anni, comunque teoricamente spiegabile con le vicende del trasporto (forse templare) del telo in occidente. Secondo Wilson, dunque, il telo da Gerusalemme sarebbe stato portato dall’apostolo Taddeo ad Abgar, prima della morte di Gesù, e sarebbe stato conservato all’interno di una chiesa di Edessa per essere poi riscoperto nel 544, in occasione dell’attacco di Chosroes. Di lì, nel 944, sarebbe stato traslato a Costantinopoli, dove sarebbe rimasto fino al saccheggio crociato.

Sempre secondo Wilson, sebbene le più antiche testimonianze descrivano il Mandylion come un fazzoletto di dimensioni ridotte sul quale era impresso il solo volto di Gesù, a partire dal suo arrivo a Costantinopoli si inizia a parlare di una figura più ampia: Gregorio Referendario [4], ad esempio, menziona le “gocce di sangue sgorgate dal suo stesso fianco”, dal che si deduce che l’immagine si estendeva almeno fino al costato. Per questo, lo storico inglese (con molti altri dopo di lui [5]), suggerisce che il Mandylion/Sindone venisse originariamente tenuto ripiegato in modo da mostrare solo il volto di Gesù: in effetti ripiegando la Sindone tre volte nel senso della larghezza, in modo da formare otto strati sovrapposti, rimane visibile una sezione nella quale l’immagine del volto è in posizione centrale. Secondo gli studi di Wilson, i segni di queste piegature sono visibili nelle fotografie della Sindone ai raggi X.

Alcune antiche raffigurazioni del Mandylion sembrerebbero confermare questa ipotesi: esse mostrano un reliquiario le cui dimensioni corrispondono a quelle della Sindone piegata in otto, con un’apertura circolare al centro attraverso la quale si vede il volto di Cristo, mentre tutto il resto dell’immagine rimane nascosto. Infine, a ulteriore riprova della tesi, tra le numerosissime copie del Mandylion dipinte nel periodo della sua esposizione (alcuni vorrebbero che ci sia proprio il Mandylion alla base dei cambiamenti delle raffigurazioni del Cristo, precedentemente figurato come giovane imberbe, avvenute proprio verso il IV secolo nella pittura bizantina) e la immagine sindonica, esisterebbe una identità quasi totale, che comprende particolari (già notati dagli storici dell’arte Paul Vignon [6] e Heinrich Pfeiffer [7] riguardo all’intero corpus dell’iconografia bizantina) quali:

– una o più ciocche di capelli corti in mezzo alla fronte, dove la Sindone presenta una macchia di sangue a forma di ricciolo;
– il sopracciglio destro più alto del sinistro;
– due segni sul naso, uno a forma di V e l’altro simile a un quadrato;
– la barba bipartita e leggermente spostata da un lato;
– la testa come staccata dal corpo;
una guancia più gonfia dell’altra e,
più in generale, oltre un centinaio di punti di congruenza (cioè punti di sovrapponibilità fra due figure; per il criterio legale americano sono sufficienti 60 punti per affermare che due immagini sono della stessa persona).

Indubbiamente, si tratta di una teoria molto suggestiva. Peccato che, come già asserito da alcuni dei maggiori studiosi del Mandylion, come, ad esempio, Desreumaux [8], sia anche una teoria completamente sbagliata per un numero considerevole di ragioni.

Proviamo ad analizzare più a fondo il quadro storico delineato da Wilson. Immediatamente traspare un errore piuttosto evidente: Wilson ipotizza un trasporto del Mandylion a Edessa da parte dell’apostolo Taddeo. Il problema è che Taddeo non ha nulla a che vedere con Edessa: si tratta semplicemente di un marchiano errore trascrittivo di alcuni copisti bizantini che hanno quasi certamente confuso il sodale di Cristo con Addai, evangelizzatore cristiano-manicheo della Mesopotamia Orientale, autore della già menzionata Dottrina di Addai, fantasioso apocrifo che tratta anche del Mandylion, vissuto intorno al IV secolo. Tra l’altro, se il Mandylion fosse davvero giunto a Edessa nella prima metà del I secolo, perché mai la città si sarebbe convertita solo alla fine del II secolo? Potrebbe trattarsi solo di un errore marginale, ma non è che il primo di una lunga serie.

Quando Wilson si rifà all’omelia di Gregorio Referendario, tenuta nell’anno 944 davanti all’immagine sacra e riportata nel Codice Vaticano gr. 511 scoperto dal Professor Zaninotto, ad esempio, compie un ulteriore passo falso e basta leggere un brevissimo stralcio del testo del X secolo per rendersene conto:

Lo splendore… è stato impresso dalle sole gocce di sudore dell’agonia, sgorgate dal volto che è origine di vita, stillate giù come gocce di sangue, e dal dito di Dio. Queste sono veramente le bellezze che hanno prodotto la colorazione dell’impronta di Cristo, la quale è stata ulteriormente abbellita dalle gocce di sangue sgorgate dal suo stesso fianco. Ambedue sono piene di insegnamenti: sangue ed acqua là, sudore ed immagine qui.

Semplicemente, il referendario usa una metafora legata alla mescolanza di acqua e sangue che, evangelicamente, sarebbe uscita dal costato trafitto del Cristo, quella stessa mescolanza che fu propria della sudorazione del Getsemani: ciò che emerge è unicamente che l’autore si rifà ad una variante popolare della leggenda del Mandylion, che vorrebbe il panno usato da Gesù per asciugarsi proprio dopo la veglia nell’Orto degli Ulivi e non che il Mandylion arrivasse a raffigurare il costato del Salvatore. Quanto, poi, alla possibilità che il Mandylion fosse la Sindone ripiegata, come notato dal direttore di Approfondimento Sindone Antonio Lombatti [9], già dal secolo scorso lo storico Von Dobschütz [10] ha chiaramente dimostrato che a Costantinopoli la teca in cui il telo era conservato veniva aperta almeno una volta la settimana e il piccolo panno aperto e disteso completamente su di una tavola di legno: appare francamente inverosimile che cronisti e testimoni non si siano mai accorti di avere di fronte un telo funebre lungo oltre quattro metri con una doppia impronta.

Per altro, ogni copia del Mandylion venuta in nostro possesso presenta una immagine del Cristo con gli occhi ben aperti e mai con gli occhi chiusi come nella Sindone. E’ certamente vero che in questo periodo esiste un cambiamento di prospettiva nell’iconografia di Gesù, ma nulla fa pensare che questo cambiamento sia espressamente legato alla Sindone: tutto il discorso potrebbe essere facilmente rovesciato e, soprattutto sulla scorta delle datazioni scientifiche del telo di Torino, potremmo tranquillamente ritenere che il Mandylion o altra iconografia successiva (e val qui la pena di ricordare che, come provato da Paul Riant [11], a Costantinopoli erano presenti un numero enorme di raffigurazioni del Cristo, tra cui almeno 14 pezzi di tela considerati parti del Sacro Sudario) possano essere stati modello per la Sindone e non viceversa.

Ma la controprova più chiara dell’erroneità delle teorie di Wilson risiede nelle testimonianze oculari di chi ebbe la fortuna di vedere il Mandylion o di chi, almeno, scrisse a pochi anni di distanza dalla sua scomparsa.

Il primo è il caso di Robert de Clary, il cavaliere piccardo che partecipò alla Quarta Crociata e che la descrisse nel suo Li estoires de chiaux qui conquisent Constantinople, più noto come La conquista di Costantinopoli [12]: ebbene, de Clary, che vide il Mandylion nel palazzo imperiale di Bocca di Leone, opera una netta distinzione tra il Mandylion di Edessa, che descrive attraverso una versione della leggenda di Abgar in parte modificata, e la sindone funebre di Gesù, esposta nella chiesa di Santa Maria delle Blacherne.

Il secondo è il caso degli Otia Imperialia [13], scritto da Gervasius Tilberensis nel 1214, in cui la distinzione tra i due teli è nettissima, tanto che essi vengono trattati in due diversi capitoli: uno dedicato al Mandylion edesseno (III, 23, De figura Domini in Edissa) e un altro alla sindone funebre (III, 24, De alia figura Domini). Difficilmente una teoria potrebbe essere più clamorosamente smentita dai fatti e dalle prove testimoniali e circostanziali. Di certo il mistero sulla scomparsa del Mandylion permane, ma di una cosa possiamo essere assolutamente sicuri: esso non si trova a Torino.

 

Autore: Lawrence Sudbury
Messo on line in data: Febbraio 2008

 

Note

[1]Cfr. G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, Città Nuova, Roma 1993, passim
[2]Cfr. Evagrio Scolastico, Historia Ecclesiae, PG 867 2745‑2748
[3]Cfr. I.Wilson, The shroud of Turin, Toronto, Orion, 1978
[4]Cfr. G. Zaninotto, Orazione di Gregorio, Il Codice Vat. gr. 511, FF 143-150V: Una conferma dell’identità tra l’immagine edessena e la Sindone di Torino, in “Collegamento pro sindone (Suppl. Coll. Pro Fidelitate No. 2)”, Marzo-Aprile 1988, p. 349.
[5]Cfr., ad esempio, J. Markwardt, Antioch and the Shroud, www.shroud.com, 1998
[6]Cfr. P. Vignon, Le Saint Suaire de Turin, Parigi, Masson et C. Ed., 1939
[7]Cfr. H. Pfeiffer, La Sindone di Torino e il Volto di Cristo nell’arte paleocristiana, bizantina e medievale occidentale, Roma, Emmaus 2, 1982
[8]Cfr. A. Desreumaux, La Doctrine d’Addaï (Aug. 23 [1983]), 181-86; Id., Histoire du roi Abgar et de Jésus (Turnhout: Brepols, 1993).
[9]Cfr. A Lombatti, Il punto sulla ricerca (pseudo)scientifica in attesa della prossima ostensione, www.sindone.org
[10]Cfr. E. Von Dobschütz, Immagini di Cristo, Roma, Medusa, 2006
[11]Cfr. John Wortley, Comte Paul Riant, Exuviae sacrae Constantinopolitanae, Vol. I et II, préface de J. Durand, Revue de l’histoire des religions, 3/2006
[12]Cfr.Cfr. Robert de Clari, La Conquete de Constantinople, a cura di Philippe Lauer, Paris Edouard Champion 1924, LXXXII-LXXXIII
[13]Cfr. Gervasius Tilberiensis, Otia imperialia, in A. Stevenson, Rerum Britannicarum medii aevi scriptores (Rolls Series), 66 (1875), 419-449 (Inghilterra. Chron. and Mem. 66).