RACCONTO: SOGNI DI STEPPA di Astfelia
Non ce l’avrebbe fatta ad arrivare a Samarcanda prima di notte. Il cavaliere era in marcia da molte ore e si sentiva ormai esausto, aveva bisogno di riposare. Era lunga la Via della Seta, lunga e piena d’insidie. Doveva raggiungere Samarcanda per incontrare e scortare un ricco mercante fino a Venezia, aspettare che là si rifornisse delle sue preziose merci e poi riaccompagnarlo a venderle in Oriente. Il consueto avanti e indietro nella steppa, fra Oriente e Occidente, che scandiva la vita di Arik-Elizar ormai da anni. Difendere con la spada era il suo compito e, in materia di difesa, il cavaliere dal volto orientale e le iridi azzurre come il cielo credeva di non aver più nulla da imparare.
Difendersi dal freddo dell’inverno e dalla stanchezza, tuttavia, in quel momento gli pareva un problema. Aveva fatto male i calcoli, avrebbe dovuto fermarsi prima a un punto di sosta per le carovane. Si guardò intorno, maledicendo l’errore assurdamente commesso, malgrado la propria lunga esperienza: il panorama gli si rivelò squallido e deserto; presso il breve corso d’acqua gelato, solo una capanna isolata e sbilenca, che sembrava abbandonata da anni. Smontò da cavallo: avrebbe dovuto accontentarsi di quel precario riparo almeno per quella notte, poi, la mattina seguente, avrebbe raggiunto Samarcanda.
Si avvicinò alla catapecchia ed entrò, stringendosi addosso il mantello, ma un istante dopo tutta la sua sfera sensoriale iniziò a mutare: sentì il freddo lasciare il posto, nelle sue membra, a un piacevole tepore e, alla sua vista, si offrì un ambiente del tutto inatteso. Non provò, tuttavia, alcun senso di sorpresa nel distinguere nella penombra un focolare crepitante d’un fuoco vivace, nel sentire la morbidezza d’un tappeto sotto i propri passi. Uno strano torpore si stava impadronendo pian piano del suo corpo e della sua mente, non lasciando spazio neppure allo sbigottimento e facendo apparire normale anche ciò che non poteva esserlo.
“Sono molto stanco”, pensò confusamente Arik-Elizar, come se la sua ragione offuscata volesse offrire una risposta ai dubbi che gli venivano dall’inconscio. In ultimo scorse la vecchia. Stava rannicchiata presso il focolare, su un cuscino rosso dai ricami dorati, e guardava il cavaliere con i suoi piccoli occhi a mandorla infossati, nerissimi, scintillanti d’una luce bizzarra. Anche i suoi capelli d’argento brillavano nel buio, riflettendo il luccichio del fuoco, che si spandeva sulla carnagione bruna, insinuandosi fra le infinite rughe.
Arik-Elizar sobbalzò leggermente, si inchinò un poco, proferì con voce incerta, in lingua cinese: “Chiedo scusa, non immaginavo ci fosse qualcuno qui…”, e fece per retrocedere verso l’uscio della casupola, ma la l’anziana donna lo richiamò con un gesto gentile e imperioso a un tempo: “Vieni pure avanti, cavaliere, riposati qui, accanto al fuoco. Sembri molto stanco”.
Si ritrovò seduto a gambe incrociate su un cuscino ricamato d’oro, presso l’allegra fiamma, di fronte alla vecchia. Un languore profondo dominava il suo corpo e la sua mente, come se avesse bevuto molto vino. Nuovamente senza poter provare stupore, si ritrovò invece a bere una bevanda calda, che sembrava il tè dei cinesi, in una tazza di fine porcellana. L’assurdità del tutto non lo toccava. La vecchia, con voce melliflua e cantilenante, gli diceva di chiamarsi Shun e di essere originaria della Cina, della famosa città di Hangzhou. Una valanga di ricordi dilagarono nella mente di Arik-Elizar, mentre la vecchia gli chiedeva il suo nome.
“Arik-Elizar”, le rispose distrattamente.
“Un nome doppio, ibrido…”, commentò la donna, come se ne conoscesse l’origine, come se sapesse che chi lo portava era un essere ibrido non solo nel nome e nell’aspetto, ma anche per nascita. Era, infatti, figlio d’un cavaliere delle orde di Gengis Khan e d’una contadina russa dal volto di fata, rapita dal guerriero mongolo durante un’incursione nei villaggi che costeggiavano il fiume Borysthenes. Era stato proprio da suo padre che Arik-Elizar aveva imparato ad usare la doppia spada mongola fin da fanciullo, quando ancora quell’arma gl’incuteva un’enorme paura, era stato seguendo il genitore in uno dei suoi viaggi che poi era giunto nel sud della Cina e aveva contemplato le antiche, inenarrabili bellezze di Hangzhou, dove le acque a primavera erano più azzurre del cielo, dove nelle barche dipinte si sognava ascoltando la pioggia…
Jin!
Era ad Hangzhou che aveva trovato Jin, in una casa di piacere, una casa azzurra… Il ricordo della moglie gli trapassò violentemente il cuore, anche attraverso quel languido torpore che gli ottenebrava le sensazioni, la coscienza, la memoria. La vecchia parlava, parlava, citava la saggezza antica del suo paese…
“Non sapevi che la gente nasconde spesso passione e desiderio come un fiore troppo prezioso per essere colto? Così disse il grande Wu Ti…”
Arik-Elizar non riusciva a seguire il filo di quei discorsi. Avrebbe voluto chiederle cosa ci facesse un’anziana donna come lei in quel deserto di steppa, tanto lontano dal suo paese e dal calore d’una famiglia, ma neppure quella domanda aveva senso in tutta l’assurdità che lo circondava. All’improvviso gli occhi della vecchia si ingigantirono infinitamente e in essi passarono rapide delle strane visioni: nel mezzo di una porta, il volto truccato di Jin e i fiori di pesco si rispecchiavano rosei; una candela illuminava appena gli alcioni dorati delle coperte e le foglie di ibisco ricamate sulle tende; la bellissima donna dai lunghi capelli di seta sedeva ad ammirare il chiaro di luna e sorrideva… Era Jin, era lei, era tornata da lui, lì, in quella strana capanna persa nella steppa, vicino a Samarcanda! Tante volte gli aveva chiesto di portarla a Samarcanda, la città dalle cupole turchesi… Cercò raccogliere le forze delle membra per protendersi verso la visione, mentre le belle labbra di Jin si schiudevano appena per sussurrare in un soffio tre parole che ferirono il cuore di Arik-Elizar come una lama di spada: “Non volevo morire…” La visione svanì e Arik-Elizar ricadde all’indietro sul cuscino rosso.
“Come fai a vedere nel suo cuore come attraverso una porta aperta?”, gli stava chiedendo la vecchia. Poi tirò fuori da una manica del nero kimono una fascia di seta gialla finemente ricamata, sul cui lato sinistro si distingueva un testo in caratteri cinesi, e prese a leggere: “Una volta Zhuang Zi sognò d’essere una farfalla svolazzante e felice. Non sapeva d’essere Zi. Bruscamente si destò e fu Zi. Non seppe più allora se era Zi che sognava d’essere una farfalla o una farfalla che sognava d’essere Zi”.
“Mia moglie…”, proferì Arik-Elizar con voce atona. “L’ho vista!”
La vecchia non si scompose: “Ma tu sai sempre come difendere te stesso e tutti da tutto e da tutti”, gli disse, guardandolo severamente. “Non è forse così?”
Arik-Elizar sentì i propri muscoli rilassarsi, la visione di poco prima sfuggire alla sua mente: “Sì, è così, so usare la spada meglio di chiunque…”
“E questo davvero ti basta per difenderti? O forse non puoi difenderti, né difendere nessuno da nessuno e da nulla, nemmeno dagli spiriti?”, lo incalzò la vecchia.
Gli spiriti… Arik-Elizar non credeva negli spiriti, non ne aveva mai visto uno ed egli non credeva in ciò che non vedeva. Ebbe infine una debole reazione: “Ma chi sei tu, vecchia?”
La donna gli rispose con un sorriso enigmatico e un quesito che aveva il suono d’una beffa: “Quanti spettri nascono dalla tua antica, infinita paura?”
Gli allungò un’altra tazza di tè… Sorridendo, Jin si chinò su di lui per offrirgli il tè, i suoi lunghi capelli neri gli sfiorarono la fronte. Arik-Elizar non poteva parlare e supplicò con gli occhi lo spirito in cui non credeva di non fargli rivivere quel momento… Il volto di Jin divenne pallido e triste.
“Avevo tanti sogni, tanta vita…”, pronunciò ancora la sua voce lontana. “Avrò il tuo cuore in cambio…”
La vecchia lo guardava duramente: “Non avresti dovuto portarla via dalla Casa Azzurra. Lei era una donna inquieta…”
“Sì, lo so”, mormorò Arik-Elizar, ormai stremato.
“Non sapesti difenderti dalla tua passione, poi dalla tua ira, e ora non sai difenderti da lei”, continuava implacabilmente la vecchia. Arik-Elizar voltò la faccia da un’altra parte per nascondere le lacrime, per nasconderle anche a se stesso. Vide ancora Jin: giaceva morta accanto a lui. Non l’aveva neppure guardata, dopo averla trafitta a morte con la spada, non era riuscito a guardare nemmeno per un attimo il corpo di sua moglie e quello del suo amante che giacevano vicini, ormai privi di vita per mano sua. Non aveva voluto vedere l’ultimo sguardo di disperazione di Jin. Era fuggito via, lontano da lì, dalla bella dimora che aveva diviso con la giovane sposa per così poco tempo, non era mai più tornato ad Hangzhou.
“Povero Arik-Elizar…”, disse ancora la voce perversa della vecchia. “Povero Arik-Elizar, che non seppe difendersi mai da nulla! Come ti difenderai adesso?”
Era la follia, certo, e non c’era più nulla da fare. Arik-Elizar chiuse gli occhi, sperando di non vedere, di non udire più niente. Invece udì ancora la voce di Jin in un lungo sussurro: “Il tuo cuore…La tua spada…”
Arik-Elizar sentì la propria spada scivolar via dal fodero, al suo fianco. Riaprì gli occhi di scatto, la vide sospesa a mezz’aria roteare davanti a lui, vicino al suo cuore, poi d’improvviso spezzarsi, cadere a terra divisa in due parti. In un sussulto, guardò il volto bellissimo della moglie vicinissimo al proprio, sentì il freddo del suo sospiro senza vita, intravide il luccichio perlaceo d’una lacrima fra le sue ciglia nere. Un battito di ciglia, poi la visione svanì in una bianca, baluginante luminescenza. La vecchia continuava a fissarlo, fra i bagliori corruschi del focolare: “Ora è andata via…” Poi tutto divenne buio.
Si svegliò al gelido sorgere dell’alba. Era disteso a terra, avvolto nel suo mantello. Era quasi congelato e terrorizzato. Cercò di sollevarsi, si guardò intorno: non c’era più nessuna capanna, nessuna vecchia, tutto era deserto. Il suo cavallo inquieto: unica presenza di vita vicino a lui. Era stato solo un sogno, lì nella steppa… Si rimise faticosamente in piedi, portò d’istinto la mano all’elsa della spada, la estrasse e la scoprì spezzata… L’eco d’una voce perversa risuonava dentro di lui: “Povero Arik-Elizar…Come ti difenderai adesso?”
Una risposta rassegnata nasceva dal profondo della sua anima ormai scissa da lui: “Non mi difenderò mai più…”
“Ma è stato un sogno, solo un sogno…”, protestò la sua ragione stanca. Una fascia di seta gialla, con un breve testo in caratteri cinesi sul lato sinistro, simile a quelle che usavano ricamare le vecchie donne di Hangzhou, scivolò lentamente a terra da chissà dove, come una foglia morta di un albero che non c’era. Gli occhi di Arik-Elizar riuscirono faticosamente a mettere a fuoco alcuni caratteri: “… Non seppe più allora se era Zi che sognava d’essere una farfalla, o una farfalla che sognava d’essere Zi…”
Autore: Astfelia
Messo on line in data: Febbraio 2008