RACCONTO: IL SENSO DELLA VITA di Astfelia
Roma, 2004
Sul treno di ritorno dal mare. Fa caldo. Manca ancora un po’ prima dell’arrivo in stazione. Sono stanca e chiudo gli occhi. Sento un brusio di voci intorno a me. Chi parla al cellulare, chi conversa col vicino di posto. Sono vivi. Io sonnecchio, ma sono viva anch’io. I morti non parlano più, non sentono più, vanno sottoterra in una scatoletta di zinco, come la mia povera madre, oppure vengono bruciati, come il mio adorato gatto. Morti, finiti, terminati, disconnessi come un computer rotto. Nulla più, non deve essere nulla di diverso, la morte: una disconnessione. La macchina non funziona più e si butta. Basta, nessuna conseguenza. Se io ora fossi morta, non sarei qualcosa di diverso da ciò che sono ora, mentre sento gli altri vivi che parlano e penso inutilmente al senso della vita e della morte, su un treno di ritorno dal mare. Se fossi morta non sarei più nulla e basta. Disconnessa.
Arrivata. Dopo il treno devo prendere l’autobus per tornare a casa. A bordo del mio bus, passo, come sempre, davanti casa del mio ex migliore amico, Giulio, e automaticamente guardo se c’è la sua macchina parcheggiata al solito posto. Non c’è: evidentemente è uscito. Non ci devo pensare. Abbiamo litigato irrimediabilmente e stavolta è davvero finita. Dopo quasi venticinque anni di profonda amicizia. Nel corso di una brutta discussione mi ha detto che sono sempre stata possessiva, gelosa e addirittura morbosa nei suoi confronti, oltreché spasmodicamente invidiosa di tutte le donne più belle di me. Non sono riuscita a sopportarlo, forse perché in parte é vero, anche se mi sono sempre sforzata di dissimularlo. Da lì la discussione è degenerata. L’ho accusato praticamente di tutto: di essere all’origine di tutti i miei complessi, di non aver capito mai nulla di me, né di quanto gli avevo detto, né di quanto gli avevo scritto nel corso degli anni (vero in parte anche questo), di essere un idiota, superficiale, egoista. Infine ho concluso che non ne potevo più di lui e che basta, era meglio lasciarci perdere definitivamente.
La sua placida risposta: “Se è questo che vuoi, Mara…” Ma percepivo che ci era rimasto molto male.
E’ finita così e non posso tornare indietro, il mio orgoglio non me lo permette, ma ci sto malissimo. Giulio è sempre stato qualcosa di assolutamente speciale per me. Non sono innamorata di lui, ma peggio, é come se fosse carne della mia carne. Fin da quando eravamo ragazzini avevo deciso di adottarlo come fratello ed era rimasto così nel corso di tutti questi anni: il fratellino adorato che non avevo mai avuto e che a volte mi faceva tanto arrabbiare perché spariva e non si faceva sentire per mesi. Non so quante volte mi sono detta: “Io, con questo ci chiudo.” Poi, all’improvviso, mi telefonava, faceva un paio delle sue solite battute, io mi scioglievo e mi mettevo a ridere. Invece stavolta é davvero finita e devo farmene una ragione: in una maledetta serata andata storta ho perso mio fratello per sempre.
Approdo a casa mia accaldata, scorata e stanca. Mi faccio una doccia e mi butto a letto senza mangiare nulla. Ho la nausea e quel pensiero della morte-disconnessione continua a ronzarmi in testa, mischiato al pensiero di Giulio.
Ho al polso il braccialetto d’argento che lui mi ha regalato tanto tempo prima, durante una delle nostre passeggiate serali fra le bancarelle di Castel Sant’Angelo. Anche lui aveva un braccialetto che gli avevo regalato io e non se lo toglieva mai, diceva che, per portarglielo via, sarebbero dovuti passare sul suo cadavere. Chissà se ora lo ha buttato via… Mi tolgo il suo, ingoio due pastiglie per dormire e, poco dopo, piombo nel sonno, col braccialetto stretto in mano.
Salem, Massachusetts, 1692
Ho appena finito di preparare la cena e già sfornato la torta di mele che piace tanto a mio fratello Jake. Mi asciugo le mani nel grembiule e scosto la tendina per guardare dalla finestra se arriva: se non si sbriga, si fredda tutto. Mi sono appena seduta a tavola, decisa a cominciare a mangiare da sola, quando finalmente entra in cucina.
“Era ora! La cena si è quasi congelata.” borbotto.
Mi schiocca un bacio sulla guancia e si siede a tavola di fronte a me, regalandomi uno dei suoi irresistibili sorrisi: “Scusa tanto, sorellina.”
“Dove diavolo sei stato finora?” gli chiedo guardandolo di traverso, mentre gli riempio il piatto di zuppa: “Vuoi che te la riscaldi?”
“No, tranquilla, va bene così. Sono stato un po’ in giro, me lo merito dopo un’intera giornata di duro lavoro nei campi, no?”
“In giro sarebbe a dire appresso a qualche gonnella?”
Sbuffa: “Eppure se fosse?”
“Se fosse, niente.”
Mi allunga un buffetto: “La mia sorellina gelosa!”
“Non sono affatto gelosa, solo che non mi piace quella ragazzina che frequenti adesso, come si chiama? Ah sì, Elizabeth.”
“Cos’ha che non va Elizabeth? E’ la figlia del pastore Brown, è di ottima famiglia, ben educata e molto carina.”
“Diciamo che è soprattutto questo.” sottolineo acidamente.
“Ebbene? Vorresti che sposassi un rospo, come ad esempio la tua cara amica Maggie Pierce?”
Sobbalzo: “Perché, pensi addirittura di sposarla quella Elizabeth?”
“Forse non sarebbe una cattiva idea, se lei mi volesse. Mi piace molto.”
Soltanto l’idea che Elizabeth Brown possa diventare mia cognata mi fa inorridire: “Non piace a me, Jake!” urlo.
“Ma è a me che deve piacere!” mi urla lui di rimando ed ha ragione. Cerco di placarmi un poco:
“Sì, lo so, ma è così vanesia ed ha la faccia da falsa. Va sempre in chiesa con quell’aria da santarellina, ma secondo me sotto sotto….”
“Tu invece in chiesa non ci vai da una vita e la gente comincia a pensare che tu sia una strega.”
Mi inalbero: “E chi lo dice questo? La tua Elizabeth Brown?”
“No, lei non dice proprio nulla di te e tu la detesti, come hai sempre detestato tutte le ragazze che mi sono piaciute, perché sei gelosa!” Jake mi sorride con aria conciliante e mi dà un pizzicotto sulla guancia: “Non prendertela, scherzo.”
Mi alzo da tavola ed inizio a sparecchiare stancamente: “Non so, Jake, la verità è che mi preoccupo perché ti voglio troppo bene e per te vorrei il meglio. E poi sei ancora tanto giovane, fratellino mio!”
“Mica tanto, ho già diciannove anni e tu ventidue, mia cara Martha, non ti sembra ora di cominciare a pensare a sistemarti? Dopotutto ci sono un sacco di giovanotti che ti ronzano attorno.”
Alzo le spalle senza rispondere. E’ vero, non sono una gran bellezza, ma ho ugualmente diversi corteggiatori, tuttavia non mi importa nulla di loro. Da quando i nostri genitori sono morti, parecchi anni fa, mi sono sempre occupata solo della casa e di mio fratello: l’unica cosa che mi sta veramente a cuore è la sua felicità. Non credo di volermi sposare, non ora almeno, ma forse è solo perché non mi sono mai innamorata di nessuno. Un giorno, magari chissà…
Finisco in fretta di lavare i piatti, poi, mentre Jake sprofonda con aria beata nella poltrona di papà, prendo il mio mucchio di fogli scritti fitto fitto, mi siedo al tavolo e mi predispongo a scrivere. La seconda cosa che nella mia via ha qualche valore sono i miei racconti fantastici.
In quel momento il nostro gatto bianco e nero di nome Lucifero entra dalla finestra, miagolando per attirare la mia attenzione. Gli indico la scodella che ho già preparata per lui con gli avanzi della nostra cena: “Lì Lucifero!”. Ci si fionda con la coda ritta.
“Certo che peggio di così non lo potevi chiamare quel micio.” commenta Jake.
“Perché? Lui ci si trova benissimo con quel nome e poi in origine Lucifero era l’angelo più bello di tutti, come il mio gatto è il più bello di tutti.”
“Eh Martha, se ti sentissero…” sospira Jake.
“Sì, soprattutto se mi sentissero il pastore Brown e la sua devota figlia…” rido io, aprendo uno dei miei manoscritti “Dunque, vediamo, dov’ero rimasta? Ah sì: “… Si addormentò piangendo e a mezzanotte si tramutò in una statuetta di giada.”
“Le tue solite storie di maghi, streghe e incantesimi vari?” riprende Jake.
“Naturalmente, lo sai che sono la mia passione.”
“Anche su quelle, un sacco di gente avrebbe molto da ridire…”
“E chi se ne importa!” sbuffo “La gente di qui ha da ridire su tutto, anche sul fatto che una donna sappia leggere e scrivere e in ogni caso non si dovrebbe leggere niente che non sia la Sacra Bibbia. Assurdo! Le mie storie spesso traggono spunto da quelle che ci raccontava nostra madre quando eravamo piccoli e, se non ricordo male, anche tu le adoravi, come adoravi lei, tanto che, da quando è morta, non ti sei mai tolto dal polso il braccialetto che ti ha lasciato.”
E’ vero e Jake non può replicare nulla. Nostra madre si chiamava Mithuna, era una bellissima creola originaria dell’isola di Barbados, lì mio padre l’aveva conosciuta in uno dei suoi viaggi a scopo commerciale e se ne era perdutamente innamorato. La sua ascendenza era metà caraibica e metà africana. Lei era a conoscenza dell’obeah, la magia delle Indie Occidentali, giunta dall’Africa con i suoi antenati, di infiniti trucchi, di vari incantesimi e di tante storie fantastiche che mi avevano sempre affascinata. Per amore di mio padre e per poterlo sposare si era convertita al Cristianesimo ed aveva ricevuto il battesimo, rinnegando in apparenza le sue originarie credenze alle quali tuttavia era sempre rimasta intimamente legata. Quando era morta, non ancora vecchia, aveva lasciato a Jake, che era poco più di un bambino, il suo braccialetto portafortuna, ornato di tre piccoli ciondoli a forma di sole, luna, albero, provenienti dal suo paese, e a me la sua bellissima collana di perle che mettevo solo nelle grandi occasioni. Invece Jake dal braccialetto della mamma non si separava mai. Lo guardo accarezzare il suo unico ornamento con devozione e mi fa una gran tenerezza. So quanto ha amato i nostri genitori e quanto ha sofferto per la loro perdita. Ora io sono tutta la sua famiglia. Mi guarda e mi regala un dolce sorriso. Ancora una volta non posso fare a meno di pensare che mio fratello sorride in modo identico a nostra madre. Io invece da lei ho preso la carnagione scura, gli occhi e i capelli nerissimi.
Mando a mio fratello un bacio sulla punta delle dita, poi mi concentro nella scrittura, mentre il gatto Lucifero, ormai satollo, salta sul tavolo per acciambellarsi fra i miei fogli, come sua abitudine.
E’ arrivata l’estate. Jake ed Elizabeth Brown si sono fidanzati ed io non ho potuto far niente per impedirlo. Fra un po’ annunceranno la data del matrimonio e a me non resta che far buon viso a cattivo gioco. E’ inutile, più conosco Elizabeth, più mi ritrovo a detestarla e a diffidare di lei, ma con Jake devo far finta di nulla per non turbarlo. Dopotutto potrei anche sbagliarmi e magari quella ragazza lo renderà felice, lui ne è così innamorato! Devo accettare la sua scelta e mi consolo un poco pensando che presto sarò zia: potrò coccolare i miei nipotini e quando saranno abbastanza grandicelli, ad onta della bigotteria della madre, racconterò loro le mie straordinarie storie…
Jake ed io siamo in visita dai Brown. Detesto tutto. L’atmosfera formale ed austera di questa casa mi opprime, le occhiate indagatrici che mi rivolgono il pastore Brown e sua moglie mi mettono a disagio, il modo di fare mellifluo di Elizabeth con mio fratello, tutte le sue smorfiette, i sorrisi smielati e la sua voce da oca che sbraita “Vuoi ancora del tè, caro?” mi danno terribilmente sui nervi.
Un altro po’ ed esplodo.
Anche la voce della signora Brown ha un tono odioso, mentre mi dice: “Hai davvero un bel vestito, cara, ma le pieghe della gonna mi sembra non cadano troppo bene e forse l’orlo è un po’ sgualcito.”
“Io penso che vada benissimo così.” rispondo asciutta.
Jake mi lancia un’occhiataccia, ma faccio finta di non accorgermene.
“Se posso esprimere una piccola critica, Martha cara…” attacca il pastore Brown “Il tuo aspetto è un po’ troppo…Come dire? Trascurato, forse. E quei tuoi capelli crespi, se riuscissi a raccoglierli un po’ più ordinatamente, sarebbe senz’altro meglio…”
Adesso esagerano. Sono in ebollizione e soltanto le occhiate supplichevoli di Jake mi inducono a trattenermi. Ma l’hanno vista la loro Elizabeth? Sembra finta per quanto è perfettamente ordinata con quei suoi capelli biondi nettamente divisi dalla scriminatura al centro del capo e con i piccoli boccoli che le incorniciano il visino dalla carnagione diafana.
“…Perché Nostro Signore ama l’ordine nella semplicità!” conclude enfaticamente il pastore Brown.
“Ma forse ama anche la varietà nella semplicità!” replico con decisione e le mie ultime parole vengono accolte da un silenzio di gelo: come oso contraddire un pastore in materia teologica?
Ci pensa la signora Brown a spezzare la tensione: “Sappiamo da Jake che sei una scrittrice, Martha, e saremmo tanto lieti di leggere i tuoi scritti che immaginiamo siano tutti in lode di Dio.”
Falsa! So perfettamente che mi biasimano per il fatto che scrivo e se sapessero cosa scrivo, poi! Mi traggo d’impaccio sbrigativamente.
“Sì, certo, come no? Jake, si è fatto un po’ tardi, è meglio togliere il disturbo.”
“Vogliamo sperare di vederti in chiesa, domenica prossima, Martha cara.” non manca di aggiungere il pastore Brown. “Ne saremmo tutti davvero felici!”
Ennesima stoccata sul fatto che non vado in chiesa: è un vero massacro.
Sulla via del ritorno a casa me la prendo con mio fratello: “Ma come ti è saltato in mente di dir loro che scrivo?”
“Che male c’è? Volevo elogiarti e non pensavo ti chiedessero di leggere le tue storie.”
“Sarebbe carino proporre loro quella sulla danza delle streghe nelle notti di luna piena.”
“Sta’ zitta, Martha, per carità. Non potresti provare a scrivere una qualche litania religiosa, piuttosto?”
Scoppio a ridere: “Ma mi ci vedi?”
Ride anche lui, ma poi torna subito serio: “No, ma forse in chiesa la domenica potresti anche venirci”.
“Oh Jake, non ti ci mettere pure tu! Lo sai che non mi va di venirci, come del resto non andava a nostra madre.”
“Ma lei ci andava alla fine per far contento papà, e tu potresti fare la stessa cosa per me.”
“Per accontentare la tua futura moglie e i tuoi futuri suoceri, vorrai dire! Finora non avevi mai preteso che andassi in chiesa.”
“Ma loro tra poco saranno la mia famiglia, Martha, e io non posso non tenerne conto.”
Siamo arrivati a casa. Sulla porta mi fermo e lo incenerisco con lo sguardo: “Da quando i nostri genitori non ci sono più, la tua famiglia sono stata io e ti ho sacrificato i miei anni migliori, facendo di te la mia unica ragione di vita. Forse anche di questo dovresti tener conto!”
Ceniamo in silenzio, senza rivolgerci la parola. Non mi va nemmeno di mettermi a scrivere dopo cena e me ne vado a letto subito dopo aver finito di riordinare la cucina, insieme al mio adorato gatto che dorme sempre con me.
Spengo subito il lume, ma poco dopo sento Jake che apre la porta ed entra in camera. Non mi muovo e faccio finta di dormire.
“Martha, dormi?” bisbiglia lui.
Non rispondo.
“Lo so che non dormi. Volevo dirti che mi dispiace, sono stato egoista e ti chiedo scusa, ma ti prego, non essere arrabbiata con me.”
Continuo a tacere. Sospirando, lui mi augura la buonanotte, ma prima che esca dalla mia stanza, chiudendo la porta dietro di sé, gli dico con voce roca: “Jake… Verrò con te in chiesa domenica prossima.”
Ci sono andata in chiesa, ma è stato un calvario. Non tanto il fatto di essere in chiesa, quanto dover ascoltare la predica infinita ed insensata del pastore Brown e vedere le facce inebetite dei fedeli che pendono dalle sue labbra. Se credere in Dio significa questo: essere schiacciati dal senso del peccato e considerare tutto come peccato, qualsiasi umana ambizione, qualsiasi libera fantasticheria, qualsiasi piacere, allora preferisco non credere in nulla, o meglio credere nel benefico, libero Spirito che anima tutta la natura, nel quale credeva mia madre.
“Tutto è nelle Scritture, tutto quello che cercate e di cui avete bisogno è nella parola di Dio: è questa l’unica fonte di verità e vita.” ha detto il pastore Brown.
Ora che sono in camera mia, guardo la Bibbia di papà al solito posto sul comodino, poi guardo il mio gatto che si rotola beatamente sul letto facendo rumorose fusa per indurmi a fargli le coccole. E’ in lui, nella luce dei suoi onniscienti occhi gialli, che scorgo la verità e la bellezza della vita.
Lunedì pomeriggio: Jake è al lavoro nei campi. E’ ancora presto per preparare la cena, così mi metto a scrivere un po’, mentre Lucifero sonnecchia sulla poltrona.
Bussano alla porta: dev’essere la mia amica Maggie che passa a farmi un salutino. Vado ad aprire e mi ritrovo davanti Elizabeth Brown. Che diavolo può volere?
E’ tutta sorrisi: “Ciao, Martha, ti disturbo?”
“No, ma Jake non c’è, è al lavoro.”
“Lo so, non sono venuta per lui, sono venuta a trovare te.”
E che ho fatto per meritarmelo? Sono costretta a fabbricarmi un sorrisetto di circostanza e a farla entrare. Il mistero è presto svelato: è qui per esprimermi la sua grande gioia per avermi visto in chiesa, la scorsa domenica, ma in realtà vuole soltanto impicciarsi dei miei affari, a giudicare da come si guarda intorno con attenzione.
“Che bella casetta ordinata!” commenta con la sua vocina falsa.
“Faccio quello che posso.” rispondo.
Li ha visti. Punta con decisione sui miei fogli sparsi sul tavolo e ne prende in mano uno, senza curarsi di chiedermi il permesso. “I tuoi scritti, che emozione!”
“Lascia stare Elizabeth, sono solo appunti, nulla di interessante.”
Ma si è già messa a leggere ad alta voce: “… Mary sapeva che la vicina foresta incantata era popolata da fate, elfi e folletti e ne era affascinata. Sognava di incontrare prima o poi, durante una delle sue passeggiate nella foresta, qualche essere fatato…”
Elizabeth lascia cadere il foglio sul tavolo con aria molto impressionata: “Fate? Elfi? Folletti? Ma tu parli dei servitori del Maligno e queste cose sono blasfeme, sono… stregoneria!”
Raccatto velocemente i miei fogli per chiuderli nella loro cartella: “Macché stregoneria, Elizabeth! Sono soltanto favole, innocenti lavori di fantasia, capisci?”
“Fantasia insana!” esclama lei con gli occhi sgranati “Se le leggesse mio padre…”
“Non c’è alcun motivo perché tuo padre le debba leggere.” rispondo secca, poi tento di distrarla: “Ti preparo un tè, perché non ti siedi? Lucifero, scendi da quella poltrona…”
La vedo sbiancare: “Come… hai chiamato il tuo gatto?”
Mi rendo conto di aver fatto un’altra terribile gaffe. Cerco di rimediare: “Luce, in realtà si chiama Luce, ma io lo chiamo scherzosamente in quel modo quando ne combina qualcuna delle sue. Sai, prima ha rubato un pezzo di carne che dovevo cucinare per cena…”
“Capisco…” Elizabeth è sempre più attonita “Ti ringrazio, ma non posso fermarmi per il tè, ora devo proprio andare, scusami.”
“Come preferisci.”
L’accompagno alla porta, senza sapere cos’altro dire, tanto non ne faccio una giusta. Richiudo l’uscio, dopo averla salutata con il mio sorriso meno spontaneo, e mi lascio cadere sulla poltrona, passandomi una mano sulla fronte sudata: “Peggio di così non poteva proprio andare!”
Per fortuna l’episodio non ha avuto conseguenze: Elizabeth non deve averne fatto parola con Jake, visto che lui non mi ha detto niente. Meglio così, ma dopotutto che mi importa di cosa può pensare di me quella stupida della mia futura cognata?
Non me la sono proprio sentita di andare in chiesa nelle due scorse domeniche ed ho addotto come pretesto dei forti mal di testa, ma certo non potrò fare sempre così. Meglio non pensarci. Del resto sono troppo occupata con i preparativi del matrimonio di Jake ed Elizabeth che si sposeranno fra due settimane. Ed io devo ancora cucirmi il vestito. Ho intenzione di mettermi bene, il giorno delle nozze di mio fratello, almeno per compiacere lui. Troverò il modo di raccogliere ordinatamente la mia ribelle chioma crespa, e, per il vestito, ho appena comprato all’emporio una bella stoffa color grigio tortora: credo sia elegante.
Ora vado a casa e mi metto subito al lavoro, ma è meglio che mi sbrighi perché sta per piovere. Sto per svoltare un angolo, per poi prendere la strada che porta a casa mia, ma mi blocco quando mi arriva alle orecchie una ben nota risatina inframmezzata da paroline sommesse:
“No, non stringermi così, potrebbero vederci.”
La voce sconosciuta di un uomo: “Un bacio, solo un altro bacio e giurami che sarai sempre la mia Elizabeth, anche dopo che sarai sposata con quell’idiota di Jake Sheldon.”
“Quell’idiota di Jake Sheldon, come lo definisci tu, non è un perdigiorno come te, ma un gran lavoratore ed ha anche una discreta proprietà, quindi mi assicurerà un vita più che dignitosa.” Una pausa per un bacio: “E comunque sì, ti giuro che anche dopo il matrimonio sarò sempre la tua Elizabeth.”
Lascio cadere a terra il mio pacco con la stoffa, svolto l’angolo e piombo fra i due come una furia. Elizabeth mi guarda atterrita, il giovane sconosciuto si dilegua all’istante. Le mollo un sonoro ceffone: “Puttana!”
Indietreggia, portandosi una mano alla guancia colpita.
“Come osi toccarmi, strega?”
“Come oso toccarti? Farò ben di peggio: dirò tutto a Jake! Hai finito di prendere in giro mio fratello, lurida sgualdrina!”
Si avventa contro di me, gridando: “Tu non hai visto niente e non dirai niente, altrimenti io…” Ma non ha nemmeno la metà della mia forza. Le afferro il braccio col quale ha intenzione di colpirmi e glielo ritorco dietro la schiena, stringendolo con tutta la forza che ho.”
Geme di dolore. La sbatto per terra, affondando le unghie nella delicata pelle del suo polso da cui subito escono stille di sangue:
“Per te la festa è finita, Elizabeth!” Le sputo addosso e la lascio lì per terra, gemente sotto la pioggia che ha cominciato a cadere fitta.
“Me la pagherai, maledetta strega!” mi grida mentre mi allontano.
Ora la cosa difficile sarà dirlo a Jake. Odio l’idea di farlo soffrire, ma non posso fare altro.
All’inizio non mi crede, dice che mi sto inventando tutto soltanto perché non voglio che sposi Elizabeth Brown. Ha le sue buone ragioni per dubitare, ma so che lo convincerò.
Percorre a grandi passi la stanza, in preda ad una grande agitazione, battendo il pugno destro contro il palmo della mano sinistra. I tre piccoli ciondoli del braccialetto della mamma tintinnano scontrandosi fra loro.
Mio fratello viene verso di me, mi guarda fisso, con gli occhi pieni di lacrime: “Perché mi fai questo, Martha, perché? Dimmi che non è vero.”
Provo una pena immensa, ma devo andare fino in fondo. Gli prendo il viso fra le mani e lo guardo dritto negli occhi: “Jake, ti ho mai mentito? Tu sai che non farei mai nulla che possa farti soffrire. Ti giuro sulla memoria dei nostri genitori che quello che ti ho detto è la verità e me ne dispiace tanto, tesoro.” Dal suo sguardo capisco che finalmente mi crede.
Il matrimonio è stato annullato. Jake è andato a parlare col pastore Brown e gli ha detto che non intende più sposare sua figlia a causa di ciò che ha saputo da me. Il pastore Brown, la moglie e una delirante Elizabeth in preda alla febbre, naturalmente negano tutto.
“Non puoi credere a quella strega di tua sorella!” grida la ragazza “Si è inventata tutto al solo scopo di separarci!”
Ma Jake è irremovibile: “Mia sorella non è una strega e so che dice la verità. Addio, Elizabeth!”
So che mio fratello ora sta soffrendo, ma penso che presto si riprenderà. Gli sto vicino con tutto il mio affetto, gli dico che presto troverà una brava ragazza veramente degna di lui e sarà di nuovo felice, ma di ciò non vuol sentir parlare.
Varie voci si diffondono su Elizabeth. La febbre non le passa, i lividi che le ho lasciati sul braccio diventano ogni giorno più grandi e violacei e i graffi si sono infettati. Nonostante le medicine peggiora sempre più. Qualche giorno dopo si viene a sapere che è in preda alle convulsioni, che cade in trance guardando a lungo fissamente nel vuoto, dopo di che comincia a gridare e si lascia cadere a terra, contorcendosi sul pavimento, mentre le sue grida echeggiano talmente alte da costringere il pastore, suo padre, ad abbandonare le sue preghiere. Alla fine il medico diagnostica che Elizabeth è in preda ad un maleficio. I vicini colgono al volo la frase e dicono che la ragazza è stregata. Si grida “alla strega!” e il nome della strega pronunciato da Elizabeth Brown nei suoi deliri, la strega che di notte la tormenta pizzicandola e mordendola, è Martha Sheldon. Accusata di stregoneria, imprigionata, processata.
Quando vengono a prendermi sono sola in casa col mio gatto e sto scrivendo. Faccio appena in tempo a far uscire Lucifero dalla finestra, temendo che facciano del male anche a lui, ma non riesco a nascondere i miei manoscritti. Li sequestrano e so che al processo li useranno contro di me. Mentre mi trascinano via, Jake, tornato a casa in quel momento, assiste alla scena impotente ed attonito. Grida disperatamente: “Martha, Martha, no, no! Dove la portate? Mia sorella è innocente, non ha fatto niente! Martha!”
Gli grido con tutto il fiato che ho: “Jake, sta tranquillo, non aver paura, non mi faranno niente.” Ma so che, per la prima volta in vita mia, gli sto mentendo.
Sono in aula, davanti alla Corte, e devo affrontare il processo. Il mio accusatore è il pastore Brown. L’accusa è la più grave: stregoneria e maleficio contro sua figlia Elizabeth che è ancora in preda ai peggiori tormenti.
La stessa Elizabeth è presente in aula. E’ pallida, emaciata, in apparenza debolissima, ma ha comunque la forza di gridare alla Corte che Martha Sheldon la tormenta atrocemente per mezzo della magia nera.
Sottoposta a interrogatorio, nego di aver mai seviziato la ragazza. Lei mi accusa di nuovo mostrando lividi, graffi e morsi su tutto il corpo. Penso che se li sia prodotti da sola. Poi prende ad agitarsi e ad urlare come se fosse sottoposta a ogni sorta di violenza: è evidente che recita, ma la parte le viene bene. Il giudice mi chiede perché faccio del male alla ragazza, ma io nego ancora l’accusa e cerco di difendermi come posso. Chiedo di rimando ai miei accusatori come posso tormentare Elizabeth Brown, mentre sono lì davanti a loro e come posso averlo fatto in tutte le notti precedenti nelle quali Elizabeth dice di avermi vista in camera sua sotto forma di spettro, se sono sempre stata in casa, a dormire nella mia stanza, come può testimoniare mio fratello Jake.
Ma il pastore Brown usa contro di me la famosa “prova diabolica”. Essa è basata sulla convinzione che il diavolo possa assumere la forma fisica di una strega, e sotto tali spoglie ingannare chiunque le sia accanto, mentre in realtà ella presenzia ad un sabba o molesta coloro che la accusano. Solo coloro che vengono tormentati riescono a vedere questi spettri, ma la loro esistenza è comunque considerata un fatto reale. Si crede inoltre che il diavolo possa assumere le sembianze di una persona solo col suo permesso e che non potrebbe mai farlo con un innocente. Di conseguenza, chiunque sia stato visto da uno degli accusatori viene ritenuto colpevole e non serve a nulla produrre un alibi. Il corpo fisico di una persona può benissimo stare alla presenza di un centinaio di testimoni, ma il suo spirito può tormentare gli accusatori.
Contro una simile argomentazione come posso difendermi? Inoltre si prendono in esame i miei manoscritti ed in essi si riscontrano elementi sufficienti per dedurre che io sono in stretto contatto col Maligno e con i suoi servitori: le fate e i folletti di cui parlo nelle mie storie.
Infine mi viene chiesto se è vero, come ha riferito Elizabeth Brown, che ho un gatto di nome Lucifero. A questo punto perdo il controllo e pronuncio la mia finale apologia:
“Sì, il mio gatto si chiama Lucifero e se Lucifero significa libertà di pensiero, passione, fantasia, comunione con lo Spirito che anima tutta la natura, e soprattutto rifiuto dei vostri assurdi pregiudizi, delle vostre insensate convinzioni, del vostro stesso Dio che non sa amare, ma solo giudicare e punire, allora sì, io sono una seguace di Lucifero!”
Ho pronunciato io stessa la mia condanna a morte. Jake, che naturalmente è in aula, mi guarda sconvolto e atterrito. Ricambio il suo sguardo, ma con occhi fieri e sicuri. Non ho paura e sorrido mentre mi riportano in prigione, sapendo che il processo è concluso e la mia impiccagione avrà luogo due giorni dopo.
La prigione è un luogo atroce. Spero che i prossimi due giorni passino in fretta.
Mio fratello viene a trovarmi: è distrutto, piange. Gli accarezzo il viso e gli asciugo le lacrime attraverso le sbarre della cella.
“Perché hai detto quelle parole, Martha, perché?”
“Non sarebbe cambiato nulla se avessi parlato diversamente, ero già condannata in partenza.”
“Fingi di pentirti, Martha, confessa, anche se è tutto falso.” mi supplica disperatamente mio fratello “Dicono che salvano la vita alle streghe che si pentono e confessano.”
“Non è vero, Jake, ce ne sono altre diciotto qui rinchiuse insieme a me. Sotto processo, in preda al panico e all’isteria, hanno confessato colpe mai commesse, ma comunque verranno impiccate come me domani.”
“No, Martha, no! Non sopporto l’idea di perderti.”
“Fatti forza, tesoro, e promettimi una cosa.”
“Tutto quello che vuoi, sorella mia.”
“Vendi tutto ciò che abbiamo e vai via da Salem. Questo è un posto di pazzi invasati e qui non c’è libertà, né vita, né religione. Cerca lontano di qui un posto migliore dove ricostruire la tua vita. Col tempo ti farai una famiglia, avrai dei figli e sarai felice, te lo prometto, tesoro.”
Mi vengono le lacrime agli occhi guardando il suo bel viso stravolto dal dolore, ma non devo piangere davanti a lui e cerco di sorridergli. Jake annuisce, si toglie il braccialetto della mamma e me lo passa attraverso le sbarre: “Adesso tienilo tu, mamma diceva che protegge dagli spiriti maligni.”
“Ma mamma lo ha lasciato a te.”
“Ora è più giusto che lo abbia tu.”
Ci stringiamo forte le mani attraverso le sbarre che ci dividono e non ci permettono di abbracciarci. Jake rimane con me finché la guardie non lo mandano via a forza.
Oggi è l’undici agosto dell’anno 1692.
Sono sul patibolo con altre povere disgraziate che probabilmente non hanno fatto niente di male come me. Tutte piangono, si disperano, implorano inutilmente. Io sono l’unica che non pronuncia una sillaba, ma il mio cuore batte comunque all’impazzata e adesso ho paura.
Mi sono tolto il braccialetto della mamma e lo stringo forte nella mano destra.
I gemiti delle mie povere compagne di sventura si perdono nel tumulto della folla riunita per assistere all’esecuzione, che urla “A morte! A morte le streghe!”
C’è anche il mio Jake fra la folla, proprio sotto il patibolo. Mi guarda con occhi terrorizzati, mentre grida disperatamente il mio nome e due dei suoi amici devono tenerlo fermo per le braccia. Mi strazia l’anima e, con lo sguardo, supplico i suoi amici di trascinarlo via. Loro mi capiscono e ci provano, ma non c’è modo. Resta lì fino alla fine a gridare, a straziarsi e a straziarmi. So che il suo dolore è immenso, atroce. Rullio di tamburi: è il momento. Ci mettono il capestro intorno al collo. Le altre donne urlano ancor più forte, io sempre zitta ed apparentemente indifferente. Deglutisco, chiudo gli occhi, col rullio dei tamburi che mi rimbomba nelle orecchie. Vedo delle cose strane: Jake ed io nell’antico Egitto, lui scriba, io sacerdotessa di Iside. Ci amiamo, ma il nostro amore è sacrilego. Jake ed io nel medioevo: siamo due fuorilegge, rubiamo ai ricchi non per dare ai poveri, ma per goderci il bottino nei nostri bagordi. Jake ed io in una corte rinascimentale italiana: io sono una nobildonna sposata, lui un servitore. In segreto siamo amanti. In un istante, quando sto per morire, lo Spirito Benefico in cui mia madre credeva, in cui io stessa credo, mi rivela che la mia vita e quella di Jake sono sempre state unite da un vincolo d’amore profondo nelle esistenze passate come in quella attuale.
In questa vita sono stata sua sorella. Nella prossima chissà…
Poi lo Spirito che mi ama mi fa la grazia di farmi perdere i sensi e diventa tutto nero…
Roma, 2004
Mi sveglio in un bagno di sudore. Con molta fatica realizzo di essere viva, nella mia casa, nel mio tempo. E’ stato solo un sogno, ma sembra durato un’eternità e mi è parso così reale… Sono ancora stordita, mentre guardo la sveglia e mi accorgo di aver dormito per più di dodici ore. “Ma che diavolo di giorno è oggi?” mi chiedo cercando di tirarmi su per mettermi seduta sul letto. Che fatica! Mi duole tutto. Riesco a mettere a fuoco il calendario sulla parete di fronte: mercoledì, undici agosto. Ho qualcosa stretto nella mano destra, che diavolo…? Ah sì, il braccialetto di Giulio. Mi vengono le lacrime agli occhi, ricordando che ho rotto col mio migliore amico. Apro la mano per guardare il braccialetto, ma non lo riconosco più: sembra molto antico ed è ornato di tre piccoli ciondoli a forma di sole, luna, albero…
Ora so la verità, so perché soffro tanto per la mia rottura con Giulio: è lo stesso dolore che provò Jake Sheldon quando sua sorella Martha venne impiccata, nel lontano undici agosto 1692.
E’ la vita che ritorna, sia pure in un’altra forma, e forse è questo il senso della vita che cercavo dentro di me sul treno, di ritorno dal mare, un senso che non ha senso: un’inutile reiterazione, una ruota che gira sempre su se stessa, un vano infinito girare senza alcun fine, senza alcuna conclusione…
E’ tutto il giorno che me ne sto qui a guardare il braccialetto di Mithuna Sheldon: è la prova che il mio sogno mi ha mostrato con chiarezza un frammento e la fine di una delle mie vite passate. Questo braccialetto, quattro secoli fa, Mihuna Sheldon lo lasciò a suo figlio Jake e lui lo diede, prima che fosse impiccata, alla sua diletta sorella Martha, la Mara di oggi.
Ora è giusto che Jake, ovvero Giulio, lo riabbia.
Ho deciso: lo chiamo, anche se per me è molto difficile e il mio orgoglio si ribella con tutte le sue forze, ma lo devo fare, perché sono stufa di piangermi addosso e forse mi è venuta un po’ della forza e dello spirito combattivo di Martha Sheldon. Al telefono esordisco un semplice “ciao”, come se niente fosse e lui mi risponde nello stesso modo. Parliamo. Gli dico decisa che sono stanca di quest’assurda situazione fra noi e che non si può lasciar morire un’amicizia che dura da tanto tempo per un banale screzio. Mi risponde che ho fatto tutto io. Replico che lo so, ma che è sempre stato così: io faccio e disfo sempre tutto da sola. Comunque, anche se forse non saremo più gli stessi, potremo ugualmente essere amici in modo diverso, dopotutto nella vita si cambia. Dice che è vero e sembra conciliante: forse è fatta. Gli dico che vorrei vederlo subito perché ho una cosa importante da dirgli… anzi da dargli. E’ ovviamente il braccialetto, ma certo non gli racconterò la sua storia, tanto non mi crederebbe e riderebbe di me: lui è molto razionale.
Mi risponde tuttavia che quella sera si sente proprio stanco per il troppo lavoro e magari facciamo un’altra volta. Se poi dopo cena si sente un po’ meglio, mi richiama.
Non lo fa e non mi stupisco: pace! Io ho fatto la prima mossa e ho rotto il ghiaccio, questo è l’importante. C’è sempre tempo per dargli il braccialetto. Non siamo più nel 1692: a quei tempi ci voleva la morte per dividere due persone che si volevano davvero bene come Martha e Jake Sheldon. Invece adesso, nel 2004, forse basta un brutto alterco per separare due amici per sempre, ma non importa, tanto ci sarà un’altra possibilità nella prossima vita. Sono tanti secoli che siamo insieme: c’è fra noi un vicolo indissolubile. In una delle nostre esistenze passate eravamo fratello e sorella, in questa amici fraterni, nella prossima chissà…
Comunque il vincolo è essenziale, la necessità è un vincolo circolare, una corda che trattiene tutto e, ormai lo so, la vita è solo una ruota che gira sempre su se stessa, un vano infinito girare senza alcun fine, senza alcuna conclusione.
Cercarne il senso è inutile, perché un senso non c’è.
Autore: Astfelia
Messo on line in data: Settembre 2004