UN “ALTRO” MESSIA di Lawrence Sudbury
Una ipotesi di rilettura in chiave storica della messianicità di Gesù
Spesso, la verità si nasconde “sotto il velame de li versi strani” e ciò è tanto più vero per quanto riguarda l’interpretazione dei Vangeli. Sotto il microscopio di un’analisi storica serrata, è facile dimostrare come emerga figura di Gesù abbastanza difforme rispetto alla semplicistica caratterizzazione catechistica circolante su questa fondamentale figura della storia dell’umanità. Proviamo ad elencare di seguito, solo per punti e riservandoci di approfondire le varie occorrenze in altra sede, le emergenze desumibili da una osservazione più attenta e, forse, meno fideistica delle Sacre Scritture.
Abbiamo:
1. un uomo di nobilissimi natali: discendente diretto della casata reale di David sia per parte di padre che per parte di madre e discendente della casata sacerdotale di Aronne per parte di madre, così come si può chiaramente evincere da una lettura delle genealogie presenti in Matteo e Luca;
2. un uomo sicuramente benestante ed altamente istruito, profondissimo conoscitore sin dalla giovinezza della Legge e delle Scritture e proveniente da una famiglia influente e numerosa, ben diverso dal “figlio del falegname” povero e reietto. In primo luogo, l’idea di un Giuseppe falegname deriva unicamente da un errore di traduzione del termine greco corrispondente a quello che oggi definiremmo “imprenditore edile”. Poi, è impensabile che, in una società profondamente stratificata come quella ebraica del primo secolo, il figlio di un artigiano fosse ammesso allo studio rabbinico (e tutti, amici e nemici, definiscono Gesù un “Rabbi” e, a dodici anni, lo troviamo già intento a discutere le Scritture con i sacerdoti del Tempio). Infine, sempre per la stratificazione del mondo giudaico coevo, è assolutamente incredibile che un discendente delle casate reali e sacerdotali si riducesse a dover svolgere attività manuali per vivere. Per quanto riguarda, poi, la sua famiglia, basta una lettura anche solo superficiale dei Vangeli sinottici per notare che il almeno cinque passaggi si parla chiaramente di “fratelli di Gesù” e che ogni tentativo di far passare tali fratelli per quello che chiaramente non sono (cugini, amici, compagni, ecc.) si scontra con la logica prima ancora che con la filologia neotestamentaria;
3. un uomo dedicato a Dio sin dalla nascita e, come probabilmente altri della sua famiglia (Giacomo il Giusto, suo fratello), facente parte della schiera spiritualmente eletta dei Nazorei, un gruppo nato da centinaia di anni (Sansone era un Nazoreo…) con intenti mistico-guerrieri. La sua appartenenza a tale schiera è talmente evidente da comparire addirittura nella sua sentenza di morte (Iesus Nozraenus Rex Iudeorum), ma a lungo, sulla base di questioni di errata traslitterazione dalla scrittura consonantica ebraica si è ritenuto che Gesù fosse “nazareno”, cioè di Nazareth di Galilea, una città che, come ampiamente provato anche dagli scavi archeologici più recenti, non esisteva ancora nel I secolo;
4. un uomo che ha come padre un Hassid, cioè un ultraortodosso, facente parte, di conseguenza, della prima corrente antiellenistica ed antiromana di Palestina. “Pio”, la caratteristica di Giuseppe più ampiamente riportata nei Vangeli, così come molte altre parole del Vecchio e Nuovo Testamento, non è un termine generico (come a dire “un brav’uomo dedito al culto divino”), ma un termine tecnico molto preciso (“pio” è l’esatta traduzione letterale di “hassid”). Le scelte politiche di Gesù saranno conseguenti e perfettamente coerenti: l’episodio del Tempio ce lo mostra come fortemente antisadduceo (i Sadducei vengono considerati corrotti, simoniaci e collaborazionisti) e numerosi discorsi come ferocemente antifarisaico (i farisei vengono considerati come ipocriti solo strettamente legati alla forma della Legge ma non alla sua sostanza profonda e come traditori del nucleo originario “hassidim”);
5. un uomo che politicamente ha un cammino ben definito: si distacca dalla corrente giovannita (di cui inizialmente fa quasi certamente parte, dal momento che si fa battezzare da Giovanni il Battista), di stampo post-essenico, per imboccare strade più radicali che, dall’idea di una conversione principalmente interiore (tipica appunto del Battista), lo portano a una rivoluzionarietà anche nazionalistica di fondo. Se leggiamo la frase “date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio” non come una generica affermazione della necessaria separazione tra Stato e Chiesa, idea, per altro, completamente impensabile per un ebreo del I secolo, ma come una storicamente ben più fondata attestazione di negazione di tutto ciò che dall’Impero deriva e di restituzione di Israele al popolo di Dio, questo fondo nazionalistico risulta evidentissimo. In quest’ottica, si spiega anche il suo circondarsi di numerosi zeloti, copiosamente presenti anche nella sua cerchia più intima (almeno cinque dei suoi apostoli sono, al vaglio storico, certamente zeloti o, almeno, provenienti dallo zelotismo);
6. un uomo che sempre dal punto di vista politico, non è alieno dal predicare la liberazione del popolo anche con metodi violenti (come spiegare, altrimenti l’idea che i suoi discepoli debbano vendere in proprio mantello per comprare una seconda spada, cioè per armarsi nel tipico assetto di guerra dei guerrieri ebrei, che combattevano sempre con una spada lunga ed una più corta? E come spiegare il fatto che Pietro, nel Getsemani fosse armato, quando il portare con sé una spada non era affatto comune per un ebreo e, tanto più, per un pescatore della Galilea?) e che, dal punto di vista spirituale, sviluppa una sostanza teologica dalle probabili connotazioni iniziatiche (si veda l’episodio di Lazzaro, la cui “resurrezione” è stata da numerosissimi esegeti interpretata come “resurrezione dello spirito” tramite un “rito di rinascita”, poi passato a numerose comunità gnostiche);
7. un uomo, in virtù di quanto sopra, scomodo per le autorità romane e per i circoli politico-religiosi ad esse più vicini (come, ad esempio, i sacerdoti Sadducei del Tempio), condannato a morte per sedizione (… Rex Iudeorum…) e, probabilmente, caratterizzato da un’alone di doppia leadership, sia politico-temporale che teologico-spirituale, in una duplicità che viene abbastanza poco abilmente mascherata con l’episodio di Barabba, cioè, stando alle più antiche redazioni neotestamentarie, di “Yeshua” (un altro Gesù?) “Bar Abbà” (“figlio del Padre”) in cui, con una usanza mai attestata da alcuna fonte, un procuratore romano (per altro famoso per la sua durezza ed il suo disprezzo per le consuetudini ebraiche) chiede alla folla, incredibilmente, se preferiscono la liberazione di Gesù “il Messia” (guida politica) o Gesù “Figlio del Padre” (guida spirituale);
8. un uomo propenso ad una interpretazione più libera e personalistica della Legge, ma completamente alieno dall’idea di un abbandono della Legge stessa (come egli stesso afferma apertamente, dicendo di non essere venuto per abolire la Legge);
9. un uomo, infine, la cui biografia e la cui predicazione viene certamente (a detta di ogni esegeta libero da altri condizionamenti) modificata, riscritta, adattata e “paganicizzata” da un suo seguace, Paolo (dalla cui interpretazione, filologicamente, dipendono tutti i Sinottici), che diventerà il modellatore di una religione nuova, nominalmente basata su Gesù ma, con ogni probabilità, piuttosto diversa da quella voluta da Gesù stesso, una religione che tenderà, in chiave politica e oggi diremmo di “marketing”, ad una eccessiva divinizzazione del suo fondatore e ad una elisione dei tratti più prettamente politico-sociali della sua predicazione per divenire accettabile ad un pubblico romanizzato, abituato a figure eroiche dai tratti soprannaturali e a cui sarebbe stato impossibile accogliere il messaggio di un patriota anti-romano.
Ebbene, da queste premesse, riportate, si ripete, in forma schematica, ma risultanti da un numero rilevante di ricerche storiche contemporanee, che figura emerge, una volta “scrostate” le interpolazioni successive alla parabola terrena di Gesù?
La risposta a questa domanda risulta piuttosto chiara. Leggiamo, a questo proposito, qualche brano estratto dal commentario talmudico di Cohen:
“Era opinione generale che l’invio di un Messia facesse parte del piano generale del Creatore fin dall’origine dell’universo […] In un punto i Dottori erano unanimi: nel riconoscere che il Messia sarà un essere umano designato da Dio ad adempiere ad un compito assegnatogli […]”[1];
“La speranza dell’avvento del Messia divenne sempre più fervida nei tempi più tristi della vita nazionale. Quando l’oppressione del conquistatore divenne intollerabile, gli Ebrei si volsero istintivamente alle profezie messianiche contenute nelle Scritture […] Per confortare il popolo nella sua miseria ed incoraggiarlo ad affrontare con animo forte le più gravi avversità i Dottori predicarono la dottrina del «dolore del Messia», secondo la quale il suo avvento sarebbe preceduto da gravi sofferenze […]”[2];
“Sembra, però, che vi sia stata una reazione a questi sogni fantastici, reazione cui è dovuta l’opinione espressa da alcuni che la venuta del Messia produrrà un solo risultato, la liberazione di Israel dai suoi oppressori; e, per vedere aboliti i mali che costituiscono l’eredità dell’uomo dovremo attendere la fine di questa vita […]”[3]
Ora, proviamo per un istante a liberarci da tutte le strutture culturali che ci siamo costruiti fin dall’infanzia e a chiederci: “è possibile che Gesù fosse il Messia nel senso ebraico del termine?”.
Ebbene, basandosi sui fatti storici epurati da ogni sovrastruttura, la risposta non può essere che sì: Gesù corrisponde perfettamente all’immagine che, nel corso dei secoli, Dottori e Rabbini avevano costruito del Messia d’Israele.
Quali devono essere le caratteristiche messianiche?
I requisiti fondamentali sono:
– regalità e nobiltà d’origine;
– sapienza;
– rivoluzionarietà;
– riforma morale e della Legge;
– lotta per la liberazione nazionale[4].
La rispondenza di Gesù sembra essere totale. Dunque un Messia del popolo d’Israele e non un Dio? Forse, ma siamo poi così certi che i termini di messianicità e di divinità siano così divergenti?
A ragione Giorgio Jossa [5] afferma che mai prima della “confessione di Pietro”[6] Gesù ha parlato apertamente di sé. Solo dopo che l’Apostolo lo ha riconosciuto apertamente come Messia (“Tu sei il Cristo”[7]), finalmente Egli pone apertamente il problema della Sua natura e lo fa in alcuni momenti topici.
Tra essi due appaiono essere particolarmente significativi: l’ingresso a Gerusalemme e la risposta a Caifa.
L’ingresso a Gerusalemme ha tutta l’aria di un ingresso da Messia davidico. Il passo è piuttosto chiaro in Marco:
“E molti stendevano i propri mantelli sulla strada e altri delle fronde, che avevano tagliate dai campi. Quelli poi che andavano innanzi, e quelli che venivano dietro gridavano: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!”[8]
ma diventa ancora più evidente in Matteo, con il compimento profetico di Zaccaria[9]:
“Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma”[10]
e in Giovanni, con la folla che esce ad accogliere Gesù con rami di palma e gridando: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!”[11].
Dunque, Gesù è il “figlio di Davide”, profetizzato e atteso dal popolo per la ricostruzione del Regno d’Israele , di cui è re per discendenza e volontà divina[12].
La valenza politica, per quanto lasciata in ombra successivamente per ragioni (paoline) di smorzamento dei toni e di negazione di ogni colpa romana, è chiarissima e non potrà che portare alla condanna di chi “si arroga un titolo che poteva spettare unicamente all’Imperatore”[13]. Non a caso, come accennato, sulla tabella di condanna, questo sarà esattamente il capo d’accusa che comparirà: l’aver affermato di essere “Rex Iudeorum”. Il fatto è che la valenza politica messianica non è l’unica valenza di questa figura così fortemente sfaccettata. Tutto diventa più chiaro nel colloquio con Caifa:
“Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».
Ecco il punto: Gesù è sì il Messia, ma un Messia [15] la cui valenza teologica è assolutamente chiara. Proviamo a riflettere per un istante sulla domanda di Caifa.
Caifa è un Sadduceo, un israelita che non può neppure lontanamente pensare ad alcun deriva politeistica. Quando chiede se Gesù è il figlio di Dio, chiaramente non si riferisce ad una “paternità divina” per condivisione della propria Condizione, ma per prossimità.
In Parole povere, Caifa sta chiedendo a Gesù se Egli è l’Inviato che ha ricevuto il Mandato direttamente da Dio, il che fa pienamente parte della tradizione messianica ebraica. Ciò è confermato da Gesù stesso con il riferimento al “Figlio dell’uomo” (già più volte fatto durante la predicazione), che è un’altro chiaro riferimento al messianesimo di stampo israelitico: Gesù è un uomo[16], anzi, è l’Uomo. Egli è l’essere umano più prossimo al Padre (colui che siede alla Sua destra), colui che, nella tradizione ebraica, è stato creato “ab initio” per redimere Israele nel suo concetto più ampio di Popolo di Dio. E questa è la massima proclamazione che Gesù fa di se stesso. Non in una sola riga del Vangelo egli si proclamerà mai Dio, ma sempre, appunto, il “figlio dell’uomo” atteso, invocato per la salvezza.
Gesù, allora, è l’”uomo perfetto”, l’ “uomo universale”[17] di guénoniana memoria per eccellenza, superiore ad ogni altro, compreso David, come Egli stesso ricorda in Matteo:
Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: «Che ne pensate del Messia? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide». Ed egli a loro: «Come mai allora Davide, sotto ispirazione, lo chiama Signore, dicendo: Ha detto il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?».Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò interrogarlo.
E, come “uomo perfetto” Gesù è ciò che di più prossimo vi sia a Dio, perché raggiunge il più alto grado di quella filiazione divina[19] che è propria di ogni uomo, diventando reale “immagine e somiglianza” di Dio, pur nella salvaguardia del più rigoroso monoteismo. Ecco allora, che la distinzione tra Messia d’Israele e Messia figlio di Dio diventa unicamente apparente: Gesù è l’incarnazione perfetta dell’Uomo nato per essere immagine di Dio e dunque, di riflesso, Dio egli stesso, ponendo in atto ciò che esiste in potenza in ogni essere umano. Ma tutto questo contrastava con troppi paradigmi pagani di divinità non prossima all’uomo ma lontana e “diversa” empirica e astratta[20], troppo per chi volesse predicare il Verbo ai “gentili”. Così venne Paolo e fu un’altra, diversa, forse troppo diversa, religione.
Autore: Lawrence Sudbury
Messo on line in data: Ottobre 2008
Note
[1] Cfr. A. Cohen, Il Talmud, Bari, Laterza, 1989, pag. 412
[2] Cfr. A .Cohen, citato, pgg. 414-415
[3] Cfr. A. Cohen, citato, pag. 422
[4] Cfr. H. Lenowitz, The Jewish Messiahs: From the Galilee to Crown Heights, Oxford, O.U.P., 2004 , pag. 21
[5] Cfr. G. Jossa, Gesù Messia, Roma, Carocci, 2006, pgg. 88 ss.
[6] Mc. 8,29
[7] Cristo è termine greco per molti versi assolutamente equivalente a Messia
[8] Mc. 11:8-10
[9] 9:9
[10] Mt. 21:5
[11] Gv. 12:13
[12] In quanto Messia, cioè Colui a cui Dio ha affidato un compito.
[13] Cfr. A. Bonnet, A Messianic Trial, Salt Lake City, Harmon, 2001, pag. 186
[14] Mc. 14:60-62
[15] Ricordiamo che, come “incaricato” il termine è neutro e passibile di qualunque valenza.
[16] “Figlio dell’uomo” è usato con valenza di “essere umano” in tutti i Profeti.
[17] Cfr. R. Guénon, La Grande Triade, Milano, Adelphi, 1980, pgg.150 ss.
[18] Mt. 22:41-46
[19] Gen. 1:26-27 “E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.”
[20] Cfr. A. Lassieur, The Ancient Romans (People of the Ancient World), Toronto, Scholastic Inc., 2004, pag. 134.